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Summer School “Sergio Ferrari” – Un’esperienza di espansione della comprensione

Nel settore agricolo l’innovazione è soprattutto cultura interdisciplinare.

I fattori tecnico-scientifici che la sostengono si coniugano indissolubilmente a quelli economici, sociali e di mercato; non per ultimo, ovviamente, anche a quelli emozionali.

Da questo assunto ha preso vita il progetto della Summer School “Sergio Ferrari” che per la sua prima edizione ha convogliato in Trentino – presso la Casa del Vino della Vallagarina – i migliori ricercatori italiani coinvolti nello studio dei cambiamenti climatici, del miglioramento genetico delle varietà e dei loro portainnesti, nonché della viticoltura di precisione e smart farming.

La proposta di alta formazione si è rivolta ad un parterre di comunicatori e giornalisti provenienti da tutta Italia, con formula residenziale finalizzata a favorire un network di qualità.

Costanza Fregoni e Attilio Scienza

Il progetto è nato grazie al supporto attivo di Agriduemila Hub Innovation e Cooperazione Trentina, alla direzione scientifica del Professore Attilio Scienza ed al prezioso coordinamento di Costanza Fregoni, dottore in Scienze Agrarie e giornalista pubblicista.

Cinque intensi giorni di lezioni, tavole rotonde, esperienze sul campo e degustazioni finalizzate ad incentivare un approccio analitico e critico della narrazione del mondo viticolo di oggi e di domani.

Una cronaca lucida e contestualizzata, rigorosa nei termini, lontana da sensazionalismi e facili approssimazioni, dialogica e non dialettica.

Oggi più che mai il giornalista di settore è responsabile della percezione che il consumatore finale ha del vino e della sua filiera produttiva; al comunicatore spetta considerare come tali percezioni incidano sugli andamenti di mercato ed arrivino addirittura a pesare sull’interpretazione comunitaria delle leggi in materia di ricerca scientifica.

Risulta opportuno, dunque, lavorare su una nuova comunicazione “colta e critica”, scevra dell’estremismo ed attivata da un imprescindibile presupposto: lo studio.

Abbandonando la paura di approfondire argomenti ostici, siamo chiamati ad indagare le varie discipline che concorrono all’innovazione tecnico-scientifica, dando il nostro contributo di conoscenza, in un mondo che deve fare i conti con sfide importanti.

Non a caso la Summer School è stata dedicata a Sergio Ferrari, giornalista ed esperto di agricoltura, colonna portante del mondo rurale trentino, docente dell’Istituto Agrario di San Michele, animatore – per anni – delle principali testate locali.

Sergio Ferrari si è spento nel febbraio del 2021, ma il suo modo di intendere il giornalismo ha fatto da vivace filigrana a tutto il progetto formativo.

Dopo questa sostanziosa esperienza di crescita umana e professionale sento il dovere di agire in prima persona affinché si superi un’informazione polarizzata e superficiale.

Riflettendo sulla propensione del consumatore a recepire, comprendere ed accettare i complessi argomenti legati all’innovazione, mi chiedo come si possa lavorare sul suo percepito.

Il primo doveroso passaggio riguarda l’approfondimento del concetto di sostenibilità, nella complessa interazione tra ambiente, società ed economia.

Il marketing ha spesso provato a fagocitare questo tema e ricondurlo alla missione dei ricercatori potrebbe essere un interessante punto di partenza.

In seconda istanza è necessario insistere su un’associazione ardita: quella tra innovazione e salvaguardia delle tradizioni e del paesaggio.

Per l’efficacia di entrambe le azioni è essenziale che si rinforzi il rapporto di fiducia reciproca fra scienziati, agricoltori e consumatori finali.

Proviamo innanzitutto ad analizzare lo stato dell’arte della ricerca con parole semplici e fruibili.

Sin dall’antichità l’agricoltura si è evoluta attraverso tecniche di incrocio e relative selezioni finalizzate ad aumentare la produttività e la qualità delle colture.

Ad oggi il miglioramento genetico nell’ambito agricolo dispone di svariati metodi che, per semplificare, si possono suddividere in tre categorie:

  1. Tecniche di incrocio convenzionali (Conventional Breeding Tecniques – CBTs)
  2. Tecniche di modifica genetica (Established Techniques of Genetic Modification – ETGM)
  3. Nuove tecniche di incrocio (New Genomic Techniques – NGT)

Nel caso della vite solo il genere Vitis è importante per la viticoltura.

Secondo la sua presenza geografica è suddiviso in tre specie provenienti da: Nord America, estremo Oriente, Europa.

Gli incroci convenzionali sono quei metodi utilizzati tradizionalmente dagli agricoltori e dai produttori di sementi e comprendono gli incroci intraspecifici (tra piante della stessa specie) e le ibridazioni interspecifiche (tra specie diverse).

Da quest’ultima applicazione derivano i cosiddetti Piwi, acronimo del termine tedesco pilzwiderstandfähig che significa appunto “viti resistenti ai funghi”.

Già dal 1890 si incominciò ad ibridare Vitis selvatica di origine americana o asiatica – portatrice di resistenze fungine intrinseche – con Vitis vinifera europea.

I primi risultati furono tuttavia modesti, con vini che presentavano un’eccessiva quantità di alcool metilico e manifestavano un frequente sentore “foxy”, derivato dall’antranilato di metile e di etile, nonché un ricorrente aroma “simil fragola” correlato al furaneolo e, più in generale, un profilo sensoriale lontano dal gusto internazionale.

La situazione cambiò negli anni Cinquanta quando un nuovo impulso alla ricerca portò vari Istituti ad elaborare nuove varietà resistenti di accresciuta tolleranza e di migliore qualità.

La sperimentazione trovò il suo cuore pulsante nell’area centrale ed orientale dell’Europa: l’Istituto di Friburgo e quello di Geilweilerhof in Germania, l’Università di Novi Sad in Serbia, quella di Brno in Repubblica Ceca e quella di Eger in Ungheria produssero i risultati più interessanti.

I nuovi Piwi sono di gran lunga più complessi dei precedenti e possono essere il risultato di un processo di selezione durato svariati decenni, nel quale si vengono a combinare molteplici re-incroci.

Essi manifestano da buone ad ottime attitudini agronomiche, profili aromatici in linea con le attuali richieste del mercato, ridotta necessità di interventi fitosanitari (non azzerata, questo è bene ricordarlo).

Nell’integrazione tra pianta europea e parentale resistente sono arrivati a contenere una quantità di genoma estraneo alla vitis vinifera non maggiore del 3-4% (la differenza genetica tra uomo e scimmia è pari al 1-2% – NdA).

Ad oggi gli ettari dedicati all’allevamento dei Piwi sono passati in Italia dai 626 del 2019, ai 2800 dell’anno in corso, anche se solo in alcune regioni si coltivano queste varietà.

L’area più coinvolta è il Trentino Alto Adige, seguita da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Lombardia.

La prima autorizzazione di impianto è avvenuta a Bolzano, grazie all’assiduo lavoro di ricerca della Fondazione Mach.

Le tipologie resistenti attualmente iscritte al Registro Nazionale delle Varietà di Vite sono 36.

Ricordiamo, tra le più diffuse, Solaris, Bronner, Johanniter, Souvignier Gris, Soreli (bacca bianca) Regent, Cabernet Cortis, Merlot Kanthus, Merlot Khorus, Pinot Regina, Prior (bacca nera).

Credo non si possa immediatamente pretendere dai Piwi le stesse performance qualitative dei vitigni classici, che da centinaia di anni hanno trovato la loro migliore espressione nei luoghi di vocazione, ma certamente la ricerca dell’identità sensoriale legata al territorio è la nuova frontiera di queste uve resistenti.

Mi auguro, tra l’altro, che ciò avvenga in connubio ad un’enologia leggera e poco invasiva.

 

Le tecniche di editing genomico, invece, si basano sulla mutagenesi sito-diretta (ETGM) oppure sulla cisgenesi (NGT)

Cosa significa?

La cisgenesi prevede l’inserimento nel genoma di una specie ricevente di uno o più geni provenienti da una specie donatrice sessualmente compatibile.

L’editing genomico, invece, rappresenta la frontiera più recente della ricerca sul miglioramento genetico.

Questa tecnologia – nota come CRI-SPR-Cas – non introduce alcun gene estraneo all’individuo, ma ne varia la sequenza internamente, riparando, disattivando o modificando un gene nativo.

Con questa prassi si producono “mutazioni” non dissimili da quelle naturali o da quelle indotte con mezzi chimici e fisici utilizzati nel miglioramento genetico tradizionale.

Cisgenesi ed editing genomico sono raggruppate, in Italia, in un’unica definizione: TEA (Tecniche di Evoluzione Assistita).

Si tratta di un nuovo termine che ha voluto evitare l’utilizzo della parola “genetico”, tentando così di superare i preconcetti più diffusi e rendendo affabile l’espressione.

Queste tecniche sono impropriamente regolate dalla Direttiva Europea 200/18 all’interno della definizione globale di OGM.

Per quale ragione si parla di una genetica della resistenza?

La storia delle patologie che affliggono la vite ha avuto inizio in Italia intorno al 1847, data di comparsa dell’oidio e si è complicata nel 1873 con l’arrivo di un insetto tropicale americano capace di attaccare le radici della pianta: la famigerata fillossera.

Nel 1878, come se non bastasse, ha fatto capolino in Europa anche la peronospora.

L’innesto di viti europee su radici americane naturalmente immuni alla fillossera è risultato il modo più efficace per debellare tale malattia.

Al contempo si sono palesati i potenziali benefici dell’ibridazione anche in merito alla resistenza a peronospora ed oidio.

Fino agli anni cinquanta la lotta a queste fitopatie si è focalizzata sull’utilizzo di rame e zolfo; successivamente sono entrate in commercio nuove molecole di sintesi ad azione di contatto, citotropica oppure sistemica.

Il ricorso massivo a questi prodotti è risultato impattante; il settore viticolo è arrivato ad assorbire il 60% dell’uso globale dei fitofarmaci agricoli.

L’aumento esponenziale di tali prassi – con relativo incremento dei costi per i produttori – ha causato la conseguente formazione di ceppi resistenti ai patogeni.

Si tratta di un fenomeno naturale di adattamento biologico: alcuni microrganismi acquisiscono col tempo la capacità di sopravvivere e crescere nonostante la presenza di un agente di contrasto che, normalmente, dovrebbe essere sufficiente ad inibirli o ucciderli.

Non dissimile dal meccanismo che abbiamo imparato a conoscere con i batteri resistenti agli antibiotici, causato dall’uso eccessivo ed improprio di tali farmaci.

Tutto ciò va contestualizzato al quadro climatico contemporaneo, caratterizzato da fenomeni meteorologici sempre più estremi, trend climatici particolarmente altalenanti e distribuzione anomala delle piogge.

Per tali ragioni, dal 1870 ad oggi, molti istituti di ricerca hanno tentato, attraverso le tecniche precedentemente descritte, di creare la “vite ideale”, capace di contrastare, almeno in parte, gli attacchi dei patogeni e le condizioni climatiche più avverse.

La comunità scientifica italiana si augura da tempo che il paese apra la strada alla sperimentazione in campo delle piante migliorate con TEA, in modo da sostenere la verifica continuativa dei risultati di produttività e sostenibilità.

Un segnale di apertura è recentemente giunto dal Parlamento italiano che ha approvato il decreto legge sulla siccità del 9 giugno 2023 dove, all’articolo 9 bis, si parla di “emissione deliberata nell’ambiente di organismi prodotti con editing genomico mediante mutagenesi sito diretta o cisgenesi, ai fini sperimentali”.

In questo processo è necessario che la condivisione degli obiettivi coinvolga all’unisono sia la comunità scientifica che quella dei produttori e dei decisori politici, al fine di strutturare un’azione corale, dove lo studio e l’applicazione dei metodi di prevenzione, cura e lotta alle malattie delle piante passi per la tecnica (agronomica, fitoiatrica, meccanica), la genetica e la tecnologia.

Quest’ultima dimensione è in costante fermento grazie all’utilizzo sempre più raffinato di satelliti, sensori, droni, robot ed automazioni, intelligenza artificiale.

sensori FEM

L’insieme di questi strumenti tecnologici costituisce la base per lo sviluppo dell’agricoltura di precisione (AP) che si pone l’obiettivo di tracciare la variabilità del vigneto ed utilizzarla per sviluppare una gestione differenziata, capace di ridurre ed ottimizzare gli interventi in campo.

Stazione meteo

La gestione agricola classica prevede ancora un intervento omogeneo nel vigneto che porta ad evidenti differenze di risultato e relativi sprechi di input.

Una visione differenziata, al contrario, parte dalla raccolta del dato e dalla sua classificazione.

Questo processo conduce ad un clustering ed alla successiva elaborazione di un modello predittivo.

In questa fase entrano in gioco i DSS, ovvero i sistemi di supporto gestionale, che forniscono all’agricoltore una serie di preziose indicazioni su come indirizzare gli interventi agronomici, favorendo la scelta dei tempi e delle modalità più efficaci per le varie operazioni in campo (seminatura, concimatura, vendemmia…)

La rilevazione di una serie di dati, tramite dispositivi a terra, SAPR (Sistema Aeromobile a Pilotaggio Remoto, meglio noto come “drone”) oppure da satellite, permette di costruire delle mappe tematiche, per esempio legate alla vigoria delle piante.

Da tali mappe si ricavano delle “prescrizioni” che il produttore può indirizzare, nella più evoluta delle prassi, a macchine a rateo variabile (VRT) capaci di automatizzare le operazioni recepite e trattare il vigneto in maniera differenziata.

L’agricoltura di precisione permette di migliorare lo sfruttamento delle risorse naturali – acqua in primis – e minimizzare il ricorso massivo ai trattamenti fitosanitari.

Che si tratti di modelli legati alla fenologia, al rischio metereologico, all’efficacia dei trattamenti oppure all’irrigazione, la necessità resta sempre quella di contare su un valido agronomo che interpreti e coordini il processo: un operatore formato è capace di gestire al meglio i dati, lavorare per la tracciabilità e monitorare costantemente l’andamento delle operazioni.

La formazione, anche in questo caso, è la condizione sine qua non.

Applicare questi sistemi ad un principio di fondo di agricoltura conservativa potrebbe rappresentare un’efficace soluzione alla lotta alle malattie, uno strumento per la sostenibilità ambientale ed economica, nonché sociale, grazie alla razionalizzazione delle risorse umane impiegate nelle operazioni più faticose della filiera.

Alcune aziende italiane lo hanno recepito meglio di altre.

Si veda, per esempio, il Progetto PICA sviluppato da Cavit (Consorzio Cooperativo di secondo grado che da solo copre il 63% della viticoltura trentina) come esempio virtuoso di piattaforma integrata fruibile da tutti i soci del gruppo, oppure il portale collaborativo VINEAS della Fondazione Edmund Mach.

Se analizziamo il comparto italiano, più in generale, ci accorgiamo di come soffra di una radicata frammentarietà e di una scarsa propensione alla visione di impresa.

Questo rappresenta un fattore ostativo e non getta di certo le basi per accogliere favorevolmente il tema dell’innovazione.

Quali possibili soluzioni?

La formazione – a tutti i livelli – è la prima risposta, così come una comunicazione scientifica capace di rivolgersi al produttore nel nome del dialogo e di una rinnovata fiducia.

Un nuovo registro comunicativo potrebbe meglio coinvolgere quegli agricoltori che ancora non sono in grado di recepire un sistema di sostenibilità economica correlato all’innovazione, anziché alla tradizione.

Il nodo focale probabilmente è proprio questo: l’innovazione viene ancora percepita come “industrializzazione”, mentre potrebbe essere promossa come proficuo strumento di esaltazione del terroir.

Resta a noi divulgatori, quindi, il compito di approfondire in prima persona i risultati della ricerca scientifica, per saperli “volgarizzare” e promuovere come strumento al servizio dell’uomo, unico e solo interprete del proprio prodotto.

A noi la missione di concretizzare la comunicazione relativa alla sostenibilità attraverso concetti semplici e pragmatici.

Un esempio?

“vivibile, realizzabile, equo e durevole”.

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Mi chiamo Paola Restelli, “PR”di nome e di fatto. Creare un nuovo contatto oppure dar vita ad una rete di idee e persone mi ha sempre procurato divertimento e piacere. Avevo fin da piccola attitudine a generare empatia e, quando il vino è entrato nella mia esistenza, questa dote si è rivelata assai preziosa. Lavoro da anni nel comparto come Consulente, con mansioni di Brand Ambassador, ma anche Responsabile dell’ideazione, della produzione e della conduzione degli eventi enogastronomici. Mi sento “al posto giusto”, come il buon vino a tavola. Conferisco alla degustazione una natura simbolica, edonistica, estetica. Penso a me come ad un cupido enoico, che opera in una nicchia privilegiata di cultura.

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