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Marinic e de Noüe – Borgogna e Brda si alleano

Vini territoriali e incisivi dai cru del Collio Sloveno
ma firmati da un coerede di Domaine Leflaive

Bourgogne e Brda: iniziano entrambe per “b”, ma sono entrambi territori da vino di serie A. Anzi, per restare nella metafora sportiva (e più che mai in Europa, “patria” larga di entrambe) sono tutt’e due da Champions League. E se la prima ormai da tempo è fissa come testa di serie – prima o comunque tra le
primissime – la seconda promette ascese nel ranking dai limiti ancora tutti da definire. E a dirlo, pensarlo – e mettere in pratica – non è, attenzione, uno qualunque:, oggi impegnato sul campo in Collio Sloveno con la cantina Marinic insieme all’eponima famiglia, di vino e di Borgogna qualcosina
dovrebbe sapere, facendo a pieno titolo parte della famiglia che controlla uno dei più blasonati indirizzi di produzione enoica del mondo: nientemeno che Domaine Leflaive.
Mr. de Noüe del resto non è arrivato per caso sin dove è ora: ha seguito una traccia storica precisissima, e in qualche modo venata di bianco, rosso e bleu (i colori del suo Paese). In questa zona, infatti, prim’ancora che a Bordeaux o nella stessa Borgogna (ed è tutto dire) è stata portata a termine – per merito dell’imperatrice Maria Teresa, o quanto meno con suo rescritto – una classificazione in cru che ne testimoniala già ai tempi riconosciuta qualità enoica. Non bastasse, è in questa terra (e in un’abbazia che, come abbiamo già raccontato su Vinodabere.it, l’illustre “incomer” francese vuol contribuire a risanare utilizzando la formula resa classica dagli Hospices de Beaune, un’asta benefica dei migliori vini del territorio presentati dall’Associazione dei Cru di Maria Teresa da lui ideata, ma che raduna ormai fior di adepti tra i produttori limitrofi) che è sepolto l’ultimo erede del trono di Francia.
Marinic, la tenuta su cui de Noüe ha appuntato la sua attenzione e in cui sta producendo i suoi vini, è prossima alla località di Vedrijan, da un lato le cime Giulie delle Prealpi e dall’altro il mare a regalare un mesoclima di indubbio interesse, ventilato, equilibrato – anche con, e malgrado, le accentazioni ben
note degli ultimi anni – e con buone medie di escursione termica. Altrettanto interessanti le giaciture in cui pescano le radici dei vigneti: terreni ricchi di scheletro e generosi di pietra bianca (altra assonanza con i luoghi di provenienza di Charles-Louis). Un posto dove si fa vino dal 1700, e dove de Noüe ha deciso però di apportare un mix di consapevolezze e salvaguardia gelosa della ben mantenuta “naturalità” (qui sostantivo non abusato, riferito com’è all’habitat e non al contenuto di una bottiglia) del sito.
E allora: piante da fusto gelosamente difese attorno alla vigna, lavoro manuale, no fitofarmaci “pesanti”, preferiti ramo e zolfo, ma ben dosati (occhio ai residui pesanti!), avvio di fermentazione con pied-de-cuve da lieviti indigeni, uso minimo di solforosa e, alla borgognotta “vera”, riduzione a zero o quasi di tutti i trattamenti che possano sfibrare o denervare i vini.
Quanto alle varietà rappresentate, l’elenco è un repertorio esaustivo della viticoltura degli ultimi due secoli in zona. La regina degli autoctoni “profondi”, la Ribolla, ha un posto d’onore. Ma avendo come cortigiani di lusso tutti i Pinot, il Grigio in testa (immancabile ovviamente il Noir, alla luce di quanto raccontato, così come lo Chardonnay), la Malvasia Istriana, il Refosco e il Cabernet Sauvignon e il Merlot, qui ormai da un pezzo così come il Sauvignon Blanc.
Tutto ovviamente imbottigliato e presentato seguendo puntigliosamente la mappa dei cru di imperiale memoria.


Ecco allora la Ribolla, dedicata – come tutti i vini di casa – al mito di Erigone, la figlia di Icario, notabile dell’antica Atene istruito da Dioniso in persona sull’arte di far vino e sulle sue peculiari proprietà (ma vittima della sua generosità: donò parte degli otri consegnatigli dal dio ai suoi concittadini che, presto ubriachi ma ignari di esserlo, e convinti di essere stati avvelenati, per tutto ringraziamento lo uccisero). È targata Gaugnaz, glorioso 1° cru, 250 metri circa di quota, esposizione “fredda”, marne e scisti in terra, viti di oltre 45 anni di media, vinificata a grappolo intero ed elevata per 18 mesi in cantina, ha tensione e sostanza, e tutte le stimmate del “cépage”.

La Malvasia Istriana, viti di oltre mezzo secolo e classica oponka (mix tipico di zona di marne arenarie e calcare, che in Friuli si chiama ponca) fermentata in tini, elevata per il 15% e per 6 mesi in botte (una nuance appena, ad arrotondare e “colorire” un minimo la dirittura aromatica del restante 85%, che fa solo acciaio) è un III cru, ma si beve… come un bianco di pedigree ben superiore.

Ambiziosi – va da sé – gli Chardonnay: l’Ossech, viti più giovani (32 anni), due settimane di fermentazione, legno borgognotto – non nuovo – per un anno per i tre quarti della massa e acciaio per il restante, con 6 mesi aggiuntivi di elevazione a taglio fatto, assolutamente non “imitatore” di nulla e nessuno, e con note esotiche particolari.

Più classico e “burroso”, e aria da primo della classe, il Domaine Vicomte de Noüe.Marinic Sotto la chiesa Bigliana II Cru, fermentato in legno, elevato in fusti di secondo passaggio, lavorato con bâtonnage e rimontaggi secondo la lezione più ortodossa, ma figlio del suo territorio e dei suoi lieviti. Mentre punta sulla freschezza il Domaine Vicomte de Noüe.Marinic Tejca Vedrignano II Cru, vigne giovanotte (25 anni, si fa per dire), esposizione nordest, legni non marcanti per l’elevazione dell’intera massa e carattere incisivo e mordente.

 

Nasce, infine, a 300 metri di quota il Refosco Marinic, solo acciaio per due anni, a rispettarne tutte le
caratteristiche varietali, ma al tempo stesso abbastanza a lungo affinato in casa per amalgamare al meglio i suoi aromi. Fruttato e piacevole, si beve con gusto e versatilità a tavola.

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