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Un Clos du Mesnil gusto nuvola: così Krug riabilita il negletto 2006

Vien l’autunno sospirando, sospirando alla tua porta: sai tu dirmi che ti porta? Un cestel di foglie morte…”. Recitava così, dimessa da subito, la strofa di uno di quei componimenti che circolavano quando a scuola – firmate da ameni quanto innocui poeti di mezza botta tipo Angiolo Silvio Novaro o Zietta Liù – ancora s’imparavano a memoria (e non copia/incollavano) testi destinati poi a goffe quanto improbabili (altro che perfomer tik-tok!) recitazioni. Questa in particolare attribuiva a ogni stagione una sorta di kit regalo che veniva depositato – si suppone – a casa del recitante/destinatario e della sua audience. E, manco a dirlo, in confronto all’estate trionfante e solare, la primavera seduttiva e vitale, e lo stesso inverno decorato da pupazzi di neve e feste di cambio d’anno, l’autunno faceva proprio la figura del poverino. La vecchia strofa e il suo contorno son riaffiorati alla mente (chissà da quale angolo della memoria, ma in fondo non senza motivo) quando Krug ha annunciato di voler presentare (con il ritorno felice, graditissimo e finanche un po’ commosso in Italia e in presenza del suo portabandiera e “raconteur” eponimo Oliver Krug, appunto) il Mesnil 2006.

Il fatto è che se tu prendi, sulla carta, il 2006, annata prima affogata e poi un po’ bollita dal clima torrido e ritenuta abbastanza di secondo piano, e la paragoni in Champagne ai 2002, 2008 etc. (senza andar neanche troppo dietro nel passato ai 1995 o ai ‘79) ecco che ti viene in mente appunto una figuretta in minore: tipo l’autunno della poesiola delle elementari in confronto alle stagioni meno sfigate. L’autunno però – attenzione! – per noi del vino è roba su cui non si scherza. È proprio la stagione in cui se ne decidono le sorti. A proposito delle quali sarà bene ricordare una volta in più che non c’è legge assoluta d’annata che tenga, e che le generalizzazioni sono vietate in un mondo fatto di meso e microclimi, varietà, suoli, esposizioni e cru incrociati in coacervi e creature una diversa, diversissima dall’altra a 50 metri (non più) di distanza.


Ed ecco allora mr. Olivier col suo kit (sempre altra roba, diciamocelo, rispetto alle Zietta Liù di settore) a dimostrarci come stanno le cose, e quanto il pregiudizio non meriti spazi che non siano riservabili all’assaggio.

Tre vini, tutti targati o basati sul 2006, a raccontarne in sintesi e in tutte le sfaccettature la storia: in Champagne, sì, ma in casa Krug però; e secondariamente, nel reparto Chardonnay, e specificatamente nel triangolo d’oro del Mesnil di proprietà.

Assaggio – prima dei piatti di Tommaso Tonioni e nella cornice regale dell’Enoteca Achilli di Roma, tra vini e distillati di pregio assoluto ed età che sfondano, in alcuni casi e per la seconda voce, i due secoli – del neonato Clos 2006 (un attimo sui lieviti che arrivo subito…), del Vintage 2006 e della Grande Cuvée 162 (sapete ormai quasi tutti che Krug numera e contrassegna con un QR ciascuna edizione del suo vino simbolo e spina dorsale produttiva legandola così all’annata “fondante” e raccontandone in trasparenza tutti gli apporti di complemento e i dettagli produttivi).


Ebbene: miracolato da quello che Olivier ha definito appunto “le miracle champenois”, il beneficio d’un finale di vendemmia che ha salvato il salvabile dopo un luglio da forno crematorio e piogge a raffica prima e (un po’) dopo, ma anche certamente dalla raffinata capacità di selezione e operativa in maison e dalla paziente permanenza sui lieviti, il 2006 ha il carattere di una nuvola attraversata dal sole. Della nuvola ha la spumosa densità tattile e i ricordi golosi che evocano sensazioni da zucchero filato, ma salato e agrumato, da adulti, non da bambini; e della solarità e del calore estivo ha ereditato al gusto una vena sontuosa sui generis, la più fruttata forse mai sentita in un Mesnil in questa fase di vita post edizione. Generoso e bevibile con gioia già ora, ma non per questo avaro di futuro.


Generosissima, poi, la Grande Cuvée poggiata sull’annata: pasticceria, spezie abbondanti e appetitose, densità, impatto. L’orchestra – sempre Olivier che appropriatamente descrive – contrapposta al solista. Con eloquente e godibile efficacia.


Meno “impressive” la prova della realtà presa in mezzo. Il Vintage, espressione “totale” e senza sconti del millesimo, non ha stavolta né la coralità da complessità di apporti della 162, né il timbro limpido e personale del comunque svettante Clos. Resta (attenzione: parliamo sempre di vini di alto lignaggio e impatto) tra i due in mezzo al guado. A ricordarci, infine, che insieme alle straordinarie eccezioni (e guai a rifiutarne a priori l’esistenza, come ribadiscono i test di cui sopra) esiste poi pur sempre anche il valore della regola…

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