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PUGLIA – VILLA AGRESTE: UNA DIMORA PER I VITIGNI RARI

Una penisola che si tuffa nel mare, innumerevoli microclimi ed habitat produttivi, una cultura del vino antica influenzata dai Greci, dai Fenici e dai Romani.Questa è l’Italia, il paese con il più imponente numero di vitigni autoctoni: un patrimonio ampelografico dall’incredibile pregevolezza. Cosa significa esattamente “vitigno autoctono”? La specie Vitis vinifera possiede un’elevata variabilità varietale: si stima che esistano tra i 10.000 ed i 20.000 vitigni sparsi in tutto il mondo. Alcuni di questi sono stati selezionati per vegetare al meglio nelle condizioni climatiche e pedologiche di una determinata area geografica, dove sono stati allevati con tecniche agronomiche idonee alle caratteristiche stesse del luogo. Tali vitigni vengono definiti autoctoni o tradizionali di uno specifico territorio. La loro lunga storia, in alcuni casi secolare, li rende ricchi di potenzialità produttive, ma soprattutto custodi di un prezioso patrimonio culturale e storico che necessita, senza ombra di dubbio, di essere preservato. Tra l’altro, maggiore è la variabilità genetica, maggiori sono le potenzialità globali dell’intera specie. L’erosione genetica, di contro, riduce la possibilità di sviluppo armonico e stabile dell’ecosistema. Purtroppo la diversità varietale viene spesso messa in pericolo dall’omologazione del gusto diffusa in ambito mondiale, una tendenza all’allineamento del palato verso stili standardizzati prevedibili e rassicuranti. Un trend probabilmente figlio della stessa attitudine umana a semplificare, a massificare per sentirsi al sicuro, oggi più che mai.Ne consegue la rinuncia o la drastica riduzione dell’impiego di vitigni cosiddetti “minori”. Minori??! Sappiate che l’obiettivo di questo articolo è ribadire, ancora una volta, quanto questo appellativo sia inappropriato: i vitigni “minori” sono cultivar “preziose”, “rare”, “uniche” e come tali vanno definite. La tipicità e la singolarità garantite dalla ridotta diffusione di un vitigno “raro” sono elementi essenziali e vantaggiosi nella scelta dell’orientamento produttivo di un’azienda vitivinicola italiana. Non si può infatti prescindere dall’ubicazione geografica ed è doveroso, ma anche economicamente conveniente, studiare a fondo la storia viticola ed enologica del luogo prescelto. Si tratta di presupposti orientati all’esaltazione a potenza del terroir, valori in grado di garantire alle referenze italiane un congruo riconoscimento nel mare magnum dell’offerta enologica mondiale contemporanea. Alla luce di queste considerazioni ho il piacere di condurvi in un areale italiano dove si lavora da anni alla riscoperta del patrimonio dei vitigni autoctoni locali.

Andiamo insieme in provincia di Brindisi, nelle campagne di Ostuni, a cavallo fra il Mare Adriatico e la Valle d’Itria. Il vento soffia su distese di ulivi, mandorli, fichi, e corre indisturbato tra i millenari muretti a secco, per trovare riparo nel cuore di un antico trullo. Il terreno nasconde nelle sue viscere carsiche un basamento calcareo, dove la vite può affondare le sue radici trovando ristoro anche nelle annate più siccitose. Non a caso proprio in questa specifica zona, nel secondo dopoguerra, si conosce il boom della vitivinicoltura incentrato sulle uve tipiche del territorio. Negli anni Cinquanta e Sessanta con meno di un ettaro coltivato è possibile far studiare i propri figli e comprare una casa in città. Negli anni ’70, però, due contributi pubblici combinati sconvolgono l’ecosistema e le sue economie: i finanziamenti per l’espianto dei vigneti e quelli per la conversione ad uliveto. Dieci anni dopo il colpo di grazia lo conferisce lo scandalo della sofisticazione dei vini. Ne consegue che ad Ostuni esistono due DOC, ma le bottiglie sono vuote.

Nel 2013, presso una struttura rurale ottocentesca immersa negli ulivi secolari, prende vita un progetto ambizioso ad opera di Enzo Iaia, istrionico proprietario di Villa Agreste, punto di riferimento dell’olivicoltura locale fin dal 1995. Tre ettari aziendali vengono consacrati non ai vitigni più famosi, ma a quelli abbandonati da decenni, gli autoctoni di Ostuni: Ottavianello, Francavidda, Impigno, Notardomenico ed anche Susumaniello e Minutolo. Altri agricoltori fanno questa scelta, sono pochissimi ma hanno il comune intento di guidare il rinascimento di queste preziose uve.

La Ostuni DOC è una denominazione pugliese riconosciuta il 13 gennaio del 1972, due anni prima delle denominazioni di Manduria; prende ovviamente il nome dall’incantevole “città bianca”.

Si deve la sua nascita all’intuito di Pietro De Laurentis, protagonista della svolta qualitativa del vino locale, oltre gli schemi pregressi della Puglia “cantina d’Italia”. Comprende sia l’Ostuni Bianco DOC che l’Ostuni Ottavianello DOC. Il primo è ottenuto da un minimo del 50% di uve Impigno, combinate a Francavidda (italianizzato in Francavilla). La seconda DOC è consacrata all’Ottavianello, che altro non è che il francese Cinsaut, conosciuto anche come Hermitage in Sud Africa, dove – incrociato con il Pinot Nero – ha dato vita al Pinotage. L’Ottavianello veniva spesso utilizzato in uvaggio soprattutto con Negramaro e Malvasia Nera. Oggi, grazie anche alla lungimiranza della famiglia Iaia, se ne riscopre l’eleganza in purezza. Un vino snello e fruttato, di buona persistenza e morbidezza, dal tannino delicato.

Il vigneto di Villa Agreste è immerso in una natura incontaminata e lussureggiante; ogni vitigno viene contestualizzato al terreno più vocato: il suolo più limoso, argilloso e fertile ospita i rossi; l’area più alta, di natura calcarea e ghiaiosa è palcoscenico dei bianchi. Ogni anno si sperimenta: si dedica più uva ad un vino, oppure ad un altro, nel totale rispetto dell’andamento dell’annata e dei guizzi creativi di Enzo.

Il progetto relativo all’unica referenza “in rosa” è intrigante e ricalca fedelmente la tradizione storica del luogo: tutte le uve vengono vendemmiate coralmente intorno alla metà di settembre e condotte in pressa per un contatto del mosto con le bucce di pochissime ore. Il 65% della massa è rappresentato da uve a bacca rossa, il restante dai bianchi. Il risultato è un vino che invita alla giocosa scoperta delle molteplici sfumature espressive di questo caratteristico rosato. Le bottiglie prodotte sono all’incirca 10.000 ed il pack design aziendale è orgogliosamente incentrato sul tema della tipicità: il culto di Sant’Oronzo, le luminarie, le feste di paese, i fuochi d’artificio.

Vi racconto i due assaggi che hanno destato maggiormente la mia curiosità.

VILLA AGRESTE – OSTUNI BIANCO LUMEN IN ARIA 2021 (Impigno 75%, Francavidda 25% )

Dall’appezzamento aziendale che guarda il mare (la costa dista all’incirca 4 km) provengono queste due uve così contrastanti e così avvezze a combinarsi in un assaggio ricco e completo. L’Impigno è foriero di scheletro e durezze: la sua acidità è guizzante e perentoria e trascina un corredo fruttato incentrato sull’agrume. Il Francavidda, di contro, è un sorprendente portavoce di frutta tropicale, capace di evocare con veemenza passion fruit, mango, pesca nettarina matura; il suo apporto di texture e volume è una piacevole sorpresa. Il matrimonio risulta assolutamente armonico, suggellato dalla vinificazione in inox ed impreziosito da un coerente e persistente finale sapido.

VILLA AGRESTE – OSTUNI OTTAVIANELLO MORELLO 2021  (Ottavianello 80%, Susumaniello 15%, Notardomenico 5% )

Dai suoli più generosi e ferrosi provengono le bacche rosse di questa azienda. Tra i filari punteggiati dalle rose passeggiano i pony di Villa Agreste ed il vigneto è incastonato in un ecosistema variegato e rigoglioso.

Prima ancora di assaggiare il vino, ci si sofferma ad assaporare l’atmosfera.

Il prodotto si manifesta fin da subito schietto ed originale, connotato dal pepe nero e da una tenue incidenza di spezia dolce; il vino, però, è stato prodotto esclusivamente in acciaio. Pare dunque che questo Ottavianello abbia un’anima davvero autentica, dove la spezia si fonde con i piccoli frutti rossi, la viola fresca, i tenui spunti erbacei. Il colore è gentile e luminoso, certamente enfatizzato dalla piccola quota di Susumaniello. Il sorso è semplice: croccante e fruttato, snello e fresco, scandito da un tannino delicato, ma ben distribuito nell’intero cavo orale. Una personalità unica al sapore di melograno e lampone, con sfumature balsamiche tipiche del Mediterraneo, in una sola parola “divertente”.

Grazie infinite alle mie colleghe Donne del Vino di Puglia Silvia Scordino e Ilaria Oliva (rispettivamente Responsabile Marketing e Brand Ambassador di Villa Agreste) per avermi aperto le porte di questo intimo spazio incantato, dove le mie frenesie si sono serenamente placate e la mia cultura in merito al patrimonio autoctono italiano si è piacevolmente arricchita.

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Mi chiamo Paola Restelli, “PR”di nome e di fatto. Creare un nuovo contatto oppure dar vita ad una rete di idee e persone mi ha sempre procurato divertimento e piacere. Avevo fin da piccola attitudine a generare empatia e, quando il vino è entrato nella mia esistenza, questa dote si è rivelata assai preziosa. Lavoro da anni nel comparto come Consulente, con mansioni di Brand Ambassador, ma anche Responsabile dell’ideazione, della produzione e della conduzione degli eventi enogastronomici. Mi sento “al posto giusto”, come il buon vino a tavola. Conferisco alla degustazione una natura simbolica, edonistica, estetica. Penso a me come ad un cupido enoico, che opera in una nicchia privilegiata di cultura.

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