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Aziende e vini esteri

Le Wineries della Long Island. Parole d’ordine: bevibilità, accoglienza, semplicità

Se lo chiamano Nuovo Mondo deve esserci un motivo o no?

Da buon italiano ed europeo l’impatto con l’idea americana del fare vino e del fare cantina è stata un po’ destabilizzante al primo approccio, ma andiamo per ordine.

Gli Stati Uniti sono ormai da anni una realtà vitivinicola consolidata ed universalmente apprezzata con un’identità propria. Le principali zone di produzione di trovano nella West-Coast, precisamente in California, in Oregon e in Washington. Terreni vocati e sapiente maestria degli enologi e dei coltivatori danno luogo a vini nei quali potenza ed eleganza sono i protagonisti principali, con segni distintivi ben precisi, grazie all’utilizzo di legni pregiati con un veloce giro di utilizzo. Ben diversa è la situazione che da cinquant’anni ad oggi affrontano i produttori della East-Coast, specialmente lo Stato di New York, che devono fronteggiare un clima (atlantico) molto rigido in inverno e molto ventilato ma umido in estate.

In particolare vi vogliamo raccontare una delle zone più suggestive e glamour dello Stato di New York: Long Island.

Long Island, a nord-est di New York è la più giovane realtà vitivinicola americana e che, con i suoi circa 4000 ettari, si posiziona al terzo posto della classifica statunitense delle aree vitivinicole per estensione.

Naturalmente vocata per l’agricoltura, la zona ha avuto un rapido sviluppo legato alla viticoltura a partire dalla fondazione della prima cantina nel 1973 fino a contare, ad oggi, più di 50 cantine situate nelle 3 sottozone della penisola. Il sistema di denominazione e indicazione delle aree vitivinicole in USA viene definito AVA ossia American Viticultural Area. Si tratta, sinteticamente, in prima fase della definizione di un preciso territorio di produzione con determinate caratteristiche e dell’obbligo, da parte delle cantine che vogliano fregiarsi di quell’appellativo in etichetta, di utilizzare uve che provengano per almeno l’85% dalla zona in questione. Come accade in Italia, per esempio nella zona del Chianti Classico, la macro zona viene successivamente suddivisa in zone più piccole a causa di specifiche differenze ambientali che vanno a caratterizzare la crescita e la maturazione delle uve e, di conseguenza, le peculiarità del vino che ne deriva. Nello specifico la zona ad est di New York comprende 3 grandi AVA: La prima che si incontra, e che è stata creata, partendo da New York City, è la Long Island American Viticultural Area che comprende le contee di Nassau e Suffolk. Continuando verso nord-est incontriamo la zona di North Fork che si estende fino all’estrema punta nord-orientale. L’ultima area, situata a sud-est sono gli Hamptons, divisi dalla zona a nord dalla Great Peconic Bay, luogo di grande richiamo turistico della New York che conta!

Vi premetto che non siamo partiti con nessun pregiudizio sui vini di questa zona ma con solo tanta voglia di scoprire un’idea di vino diversa e “lontana” dalla quotidianità dei nostri palati e delle esperienze. Così in un sabato mattina prendiamo la macchina e da Brooklyn partiamo in direzione di Southold dove ci aspettava una casa vacanze in tipico stile USA, accogliente e con un camino (la cosa è strana visto che è una meta turistica estiva!) che si è rivelato molto utile per combattere la tormenta di neve che ci ha svegliati la domenica mattina. Durante il tragitto è stato bello vedere come il caos frenetico della metropoli lasciasse spazio e respiro alla provincia ed alla tranquillità di aree residenziali con molto “verde” (a febbraio è un modo di dire!) intorno a piccole ville spesso isolate come ultimo baluardo contro le incalzanti metropoli vicine a mantenere un legame con la terra e la natura.

Così dopo un paio di ore di viaggio arriviamo nella contea di North Fork. Lungo la strada cartelli in ogni direzione indicano cantine, a destra e sinistra. La maggior parte di queste strutture sono direttamente sulla strada principale senza dover addentrarsi per sentieri sterrati e tortuosi, si mette la freccia, si sterza, si parcheggia e siamo già  davanti all’ingresso. Una cosa impensabile, o inaccettabile, considerata la sacralità delle cantine italiane, ed europee in generale, che per essere raggiunte, in alcuni casi, occorrono 2 navigatori, 1 cartina e tanta fortuna! Con la nostra abitudine quegli edifici non sembravano neanche cantine ma a questo punto occorre una precisazione: nella zona di Long Island (almeno lì) la cantina dove viene creato il vino è spesso distaccata dalla struttura dove è possibile degustare, bere o semplicemente sedersi su un portico e rilassarsi con i filari davanti. Quelle che vengono definite cantine sono, principalmente, degli showroom, degli eleganti bar monomarca, dove è possibile, visionando un menu, scegliere se acquistare un calice, una bottiglia oppure un tasting flight, ovvero una sorta di assaggio, dose degustazione, di 4 o 5 vini tra quelli prodotti dall’azienda ad un prezzo variabile tra i 15 e i 25 dollari, ovviamente volto al potenziale acquisto. Questo primo impatto ci destabilizza un po’, ogni volta che andiamo in una cantina vogliamo vivere l’esperienza di visitare i luoghi dove l’uva si trasforma in vino, di toccare e sentire gli odori legati alle fermentazioni e alle trasformazioni del vino, passeggiare dove gli autori del vino passano la maggior parte del tempo. Provare i vini, assaggiarli con disinvoltura e, in un certo senso, leggerezza, non rende completa la nostra esperienza, ci lascia un languorino in bocca come se qualcosa mancasse. Cerchiamo quindi di guardarci intorno e capire meglio questo modo di fare le cose. Queste strutture sono principalmente nuove o nuovissime, curate in ogni minimo dettaglio per proporre la migliore esperienza emozionale ai clienti, sembra di entrare in un flagship store arredato come un club esclusivo. Dal menu capiamo l’importanza dei “wine club”. L’affiliazione dei clienti ha un’eco ed un successo immenso qua, vuoi per l’esclusività di alcune aree di queste cantine a cui si ha accesso solo se si è membri, vuoi per gli sconti, vuoi per il primitivo bisogno di sentirsi parte di qualcosa. La prima cantina che andiamo a visitare, o testare, è Palmer. Un edificio in legno con un portico che dà sui vigneti e dentro, come da tradizione americana, un bancone lungo in legno dove chiedere da bere. Un po’ spaesati ma curiosi ci aggiriamo per questo luogo, perfettamente arredato dove ogni cosa è indirizzata alla valorizzazione dei prodotti, dagli accessori, alle principali note degustative nei cartellini davanti alle bottiglie, sotto il prezzo.

Visto il poco tempo e la voglia di visitare più cantine possibili chiediamo il tasting flight, 4 assaggi di vini, Chardonnay, Viognier, Cabernet Franc e Merlot. Quando chiediamo i vini questi ci vengono serviti e presentati indicandoci le caratteristiche organolettiche basilari di ognuno, nessun accenno sulla provenienza delle uve, nessun accento sul tipo di invecchiamento né su un’eventuale particolarità nella produzione. Ancora un po’ intimiditi ci facciamo bastare queste lacunose descrizioni dei prodotti e decidiamo di tirare le somme in autonomia. Vini perfetti, puliti, piacevolissimi che invogliano e spronano ad essere bevuti con leggerezza anche senza essere accompagnati ad un piatto. Il Viognier ci lascia entusiasti, di una freschezza insolita, un naso rispettoso del vitigno e una bocca che non esagera in pesantezza e morbidezza ma accenna freschezza e sapidità che ben ne bilanciano la carica aromatica. Usciamo fuori a fare una passeggiata per i filari, senza bicchieri che devono essere categoricamente lasciati dentro, e notiamo famiglie con bambini che giocano tra le poltrone ed i tavoli di legno. Sorridiamo per una scena così famigliare e al tempo stesso ci crucciamo per la mancanza di tali siparietti nelle nostre esperienze in patria. Lasciamo Palmer e la sua atmosfera per continuare il nostro viaggio. Poco dopo incontriamo la nostra seconda cantina, Castello di Borghese, una delle prime nate in questa zona.

Ovviamente attirati dal nome italiano fermiamo la macchina, attirati anche da un grosso camion arrugginito sul parco adiacente la statale con dietro botti ormai molto vecchie sulle quali si stagliava come un manifesto la scritta PINOT NOIR(FOTO). Decidiamo ovviamente di provare nel flight il Pinot Nero che non ci convince, troppo naso e poca presenza al palato. Il Cabernet Franc Riserva 2014 invece ci fa innamorare. Perfetto. Rappresentativo. Caratteristico. Di una potenza unica, che non avevamo incontrato nel precedente, ma sapientemente gestita e mitigata da una componente alcolica e polialcolica che lo rendeva non aggressivo ma solamente elegante. Un signore distinto che ha ancora tanto da dire. Non austero ma vivace senza eccessi. Quello che poi verrà da noi definito un vero English Man in New York! Gli altri vini mantengono una bevibilità quasi imbarazzante, una piacevolezza e soddisfazione nel complesso fuori dal comune. La giornata continua fino a sera continuando ad assaggiare e visitare altre cantine che non hanno niente di rimarchevole, a nostro avviso, da segnalare.

Ci svegliamo di buon’ora, il giorno dopo, ed è subito studio e ricerca matta e disperata!  La prima Cantina è Bedell.

Entrando siamo quasi intimiditi dalla bellezza del posto, arredamento moderno, bancone stranamente semicircolare e soppalco con tavoli privati (ovviamente tutti riservati) che esprimeva un’atmosfera intima ed elegante con due finestroni, uno sui vigneti imbiancati che hanno reso quella vista “priceless” e l’altro sulla cantina di affinamento con la vista delle barriques, dei contenitori di acciaio e di terracotta attualmente in utilizzo che tanto agognavamo di scorgere. Proviamo 4 vini come di consueto e siamo attratti dalle etichette, bellissime. Borgognotte eleganti, scritte in oro su carta nera opaca, rimaniamo anche stavolta affascinati da come in queste zone sanno domare l’irruenza e l’arroganza del Cabernet Franc, creando, in questo caso, un vino dall’eleganza, dalla delicatezza e morbidezza lontane dai canoni europei ai quali siamo abituati. Pronto, perfetto già adesso senza bisogno di attendere, un vino per il presente, per l’immediato.  Procediamo per tutto il giorno tra assaggi, cibi della zona, prendendo traghetti che ci portano a Shutter Island e nella regione degli Hamptons godendo di panorami incredibilmente suggestivi e diversi da quelli ai quali siamo abituati, visitando cantine che sembrano country clubs, altre boutique esclusive dove l’idea del piacere si distacca dal vino che diventa un contorno all’opera dell’uomo che ricerca benessere e comodità in ambienti non consueti, lontani dal caos incessante ed incalzante della city senza riuscire ad apprezzarne a pieno il senso e la bellezza interna ma solo godendo della pace che ne deriva di riflesso. La stessa differenza che c’è tra chi guarda un quadro perché è bello e chi lo guarda per quello che rappresenta. In alcuni di questi luoghi la differenza tra queste due categorie è così accentuata che tu che ricerchi di andare oltre etichetta e tasting notes imparate a memoria sei un alieno in mezzo agli umani che vogliono godere in un rumoroso silenzio la loro esperienza in cantina, comodi su sedie di design, con funghi che riscaldano l’ambiente e vassoi di ardesia che portano cracker in busta, senza indagare, ma trattando quel che viene loro dato come un succo di felicità. Quasi a fine giornata capitiamo dalla Lenz Winery.

La prima cosa che ci colpisce è l’ambiente un po’ retrò, un po’ saloon, tutte rifiniture in legno come tavoli e sedie, un contorno da pizzicheria toscana più che da cantina glamour. Dei vini che assaggiamo rimaniamo sbalorditi dalla potenza del loro Malbec 2014, sfrontato sia negli aromi che nel gusto, mantenendo sempre una brillantezza consapevole della sua età ma, soprattutto, del suo potenziale. Lasciamo Lenz Winery contenti e ci avviamo a casa stanchi ma felici e con un’idea un po più chiara del contesto in cui siamo. L’ultima cantina che visitiamo nella zona il lunedì prima di partire è Sparkling Pointe.

Da appassionati, ossessivi, di bollicine entriamo in questa bellissima struttura con un po’ di preoccupazione e con qualche pregiudizio che vengono immediatamente spazzati via da prodotti puliti, verticali, con perlage fine e aromi perfettamente amalgamati tra primari delle uve e terziari rilasciati da soste sui lieviti mediamente molto lunghe. Ci convincono quasi tutti i prodotti anche se rimaniamo interdetti dal loro Pinot Nero vinificato rosso e spumantizzato, che nemmeno lasciandolo salire di temperatura acquisisce il carattere degli altri e la loro eleganza, tanto da ricordarci un ottimo Lambrusco grazie al grado zuccherino più accentuato.

Rientriamo a New York felici ma con qualche domanda ancora aperta sulla distanza che i vini avevano tra naso a bocca. La maggior parte presentavano nasi intensi e potenti, con aromi amalgamati alla perfezione, rispettosi dei vitigni utilizzati in purezza o dei blend elaborati. Le aspettative erano altissime, come il nostro successivo stupore e disappunto. La bevibilità era la caratteristica principale e filo conduttore di tutta la filosofia produttiva, vini di una piacevolezza e semplicità di beva fin troppo accentuate, con poco corpo e una struttura quasi accennata, come la persistenza che, nella maggioranza dei casi, non andava oltre i 3 o 4 secondi. Per capire meglio, la qualità dei vini che abbiamo provato è alta, nessun difetto, vini puliti, limpidi, con ottimi equilibri e freschezza e salinità inaspettate. Siamo solo rimasti perplessi e incuriositi da questa mancanza di armonia tra gli aromi e i sapori.

Decidiamo, il giorno seguente, di andare a visitare l’ultima cantina, la Red Hook Winery, che si trova sul litorale di Brooklyn, dove si può godere del panorama della Downtown.

Entriamo, l’ambiente è un po’ più spartano, l’utilizzo di vecchie botti e pancali per divani e sedie ci risulta più familiare. Il caso ha voluto che quel giorno uno degli enologi, si avete letto bene enologi, fosse lì e che abbia trovato il tempo di rispondere alle nostre strane domande. Christopher ci racconta che è stato in toscana, che conosce bene la zona di Siena, dove è stato per un paio di vendemmie e che adora i vini italiani. Gli chiediamo subito dove sono i loro vigneti e lui risponde che non ne hanno di proprietà ma che si recano nella zona di Long Island per scegliere gli acini e i grappoli che poi saranno comprati ed usati nella produzione delle loro etichette. Di questo processo si occupa lui direttamente, ci sembra quindi la persona più adatta a cui chiedere dei nostri dubbi sulle caratteristiche dei vini che abbiamo trovato nella zona. Lui ci spiega le ragioni sono due: ambiente e domanda. L’ambiente, suolo e clima, era stata la nostra prima, ed unica, risposta; sotto un sottile strato di argilla si alternano strati rocciosi e sabbiosi fino ad una sede rocciosa di origine cretacea. In sintesi, il drenaggio idrico è molto alto e le radici delle viti assorbono elementi salini e minerali in abbondanza. Il tutto va combinato con un clima continentale e con la vicinanza dell’oceano e tutti gli effetti connessi, estati miti e inverni freddi (ha nevicato sulla spiaggia!) che rendono la maturazione delle uve più lunga e più difficile. Per quanto riguarda il fattore domanda ci abbiamo riflettuto a lungo e della risposta ve ne parleremo alla fine, prima però vogliamo presentarvi questa cantina-progetto che tanto ci è piaciuta. La Red Hook Winery nasce nel 2008 dall’idea di Mark Snyder di creare vini per ogni palato e per ogni tipo di consumatore, per molte delle etichette (sono tante e spesso molto particolari) ci sono più versioni, interpretazioni per meglio dire, che fanno capo al progetto di uno dei tre enologi, Robert Foley, Abe Schoener, Chistopher Nicolson. Ognuno di loro ha il proprio stile, la propria firma, il proprio gusto e il proprio vino in mente, così ognuno si occupa di tutte le fasi della produzione e dell’affinamento delle bottiglie che verranno poi marcate con uno specifico logo. Così facendo chiedere uno Chardonnay, come nel nostro caso, può creare non pochi problemi ad un avventore inesperto e, al tempo stesso, risultare estremamente stimolante e intimo per chi non si accontenta di chiedere una bottiglia di vino. Christopher ci spiega la complessità e la bellezza di questo progetto con tre versioni di Chardonnay che in comune hanno solo i grappoli spremuti ma che si discostano infinitamente l’uno dagli altri tanto da sembrare quasi 3 vini completamente differenti. La prima versione che ci propone è quella Robert Foley: Il vino risente della tradizionale vinificazione californiana con profumi di legno, spezie delicate e dolci, che esaltano le note varietali dell’uva. In bocca l’uso del legno è evidente sprigionando una morbidezza e un corpo che quasi non riusciamo a credere che le  uve vengano da North Folk, solo la sapidità  e la freschezza tagliente sfatano ogni nostro dubbio. Elegante, raffinato e seducente, ricorda i vini californiani rispettando la provenienza delle uve. La seconda bottiglia che ci viene cortesemente aperta è quella di Abe Schoener: Sconvolti! Macerazioni lunghe sulle bucce, profumi di ossidazione presenti e persistenti, anticonformista, un vino che rispecchia perfettamente la filosofia dell’enologo che lo ha creato. La complessità degli aromi è disarmante tanto da richiedere una seconda indagine con una temperatura più alta ( in America i vini vengono serviti molto, molto, molto freddi sappiatelo!) che libera finalmente uno spettro di aromi sconfinato. I varietali sono stravolti ed amalgamati benissimo con dei terziari di foglie secche e muschio, ossidazioni, spezie orientali, aromi eterei e degli accenni di malto e lievito. In bocca è sorprendente, non uno sciroppo come ci aspettavamo ma liscio, pulito con un corpo presente ma mai invadente, le caratteristiche delle uve smorzano bene la prepotenza che questa espressione di Chardonnnay ostenta al naso (fortunatamente). Piacevole e di carattere, sopra le righe, eclettico e non convenzionale, uno di quei vini che non dimentichi. Arriva il turno della versione di Christopher: Chardonnay, è questa la parola che ci viene in mente. Nessuno stravolgimento, nessuna forzatura, nessun artificio, nessuna iniezione di carattere superfluo e distorsivo della materia prima, Chardonnay. Il naso più rispettoso dei tre che abbiamo provato, il passaggio in legno si sente ma fa da cornice agli aromi andando ad esaltarli e mai a coprirli come una bellissima cornice che non toglie attenzione ad un dipinto ma ne esalta i colori e le linee. Legni vecchi, quasi alla fine delle loro vita ma necessari per dare struttura, corpo, larghezza e spettro aromatico date le caratteristiche delle uve. Al palato, Chardonnay, perfetto l’equilibrio che quasi disturba per non riuscire a trovare nemmeno un piccolo difetto vista la nostra appena passata esperienza. La perfezione con cui è stato utilizzato il legno nel bilanciare le carenze di larghezza e mitigare gli eccessi di freschezza e sapidità/mineralità è perfetto, Chardonnay. Realizziamo, ancora una volta, quanto il progresso tecnologico, la sperimentazione ed il coraggio di alcuni possano portare a risultati unici e, quanto mai nella storia del vino, diversi partendo dalle stesse materie prime. Quanto l’idea di un singolo possa creare espressioni fino a quel momento impensabili ed inconciliabili con dinamiche di mercato oggi vincolanti e competitive. Quanto il coraggio, la sconsideratezza, il pensiero e i sogni di una singola persona possano realizzarsi in un caleidoscopio di sfumature così uniche. Quanto queste cose possano succedere solo in America.  Con il sorriso lasciamo questa cantina di persone matte e belle con l’augurio che il loro progetto possa volare alto seguendo il miglior vento che il destino gli darà!

Vogliamo concludere con una nostra personale interpretazione di una delle risposte che ci ha dato Christopher,  invitandovi a rispondere ad una domanda che faremo noi a voi. Oggi, come mai prima, il legame tra territorio, tradizioni, miti e vino è fortissimo e su questi legami si basano molte delle nostre considerazioni, e valutazioni, sui prodotti che beviamo.  Le discriminanti sono spesso, tipicità, rispettosità, caratterizzazione, avallate da una tradizione ed una diversità ampelografica e ambientale unica nel mondo che ne giustifica l’importanza, parole che fanno da spartiacque, spesso, tra un ottimo vino e un buon vino. Il nostro legame con la tipicità, con la “tradizionalità”, con le radici profonde che abbiamo in uno specifico territorio ci dà anche un metro di giudizio diverso e un’esperienza, anche indotta, molto maggiore di quella di una gran parte del resto del mondo. In America questa tradizione non è centenaria, o millenaria, o meglio lo era prima che il proibizionismo cancellasse molti legami con il vecchio mondo, e non c’è possibilità di parlare negli stessi termini che per noi sono le colonne di un valore aggiunto che nessuno può negare.  Lì il vino è una cornice, andare in cantina è una scusa per stare insieme agli amici, ai familiari, il fine settimana per scappare dalla costante e sfiancante frenesia di una città che ti annienta se non sei abbastanza forte e ricaricare le batterie godendo della bellezza di un tramonto su un vigneto o delle onde su una scogliera. Il vino, parlare di vino, analizzare il vino è superfluo. La nostra domanda quindi è questa. Chi sono i matti? Loro che sanno apprezzare un vino anche non armonico, non equilibrato, non intenso, e non complesso per quello che è e per quelle emozioni di convivialità, unione e comunione che scaturiscono da un bicchiere o noi che, troppo spesso, dimentichiamo il bello che c’è intorno ad un bicchiere perché incastrati con il naso dentro un calice miopi della bellezza che ne scaturisce?

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