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La Cina è vicina – seconda parte: Sua altezza Ao You, il Cabernet che nasce a quota Stelvio – Vigneti a 2600 metri per il “dorato” rampollo targato LVMH

Tanto per capirci, e darci subito una regolata: i vigneti da cui nasce questa ambiziosa (e già ben collocata) creatura abitano 300 metri più in alto della casetta di partenza del Lauberhorn, a Wengen, la pista di discesa libera più famosa e temuta del mondo (72% di pendenza massima, 165 km/ora di velocità toccati da atleti top come l’italiano Innerhofer, che ci vinse nel 2013). E, giusto per restare in tema e tornare a giocare con numeri di casa nostra, siamo 400 metri più su della pista Stelvio a Bormio, 100 appena sotto l’omonimo passo e 600 più in alto della pista del Sestriere.
Il posto si chiama – come il suo vino – Ao You, il punto di riferimento per trovarlo è l’attacco delle pendici dell’Himalaya, e quello per sognare – evocato non a caso dai navigati proprietari – è la prossimità al luogo in cui sorge la mitica città di Shangri-La.
L’uomo che si è preso la responsabilità di provare a fare là vino d’eccellenza (in campo mondiale, e non solo cinese: questa almeno è l’ambizione dichiarata) allevando uve in oltre 300 parcelle, le più elevate delle quali superano i 2600 metri d’altitudine e nessuna scende sotto i 2200, si chiama Maxence Dulou.

La “ditta” celebre e composita per cui lavora è LVMH. Gente che sui vini di lusso (e sul lusso in generale) qualcosa ha detto, e qualcosa certo sa. E che ha scelto come casa in Cina un luogo il cui nome sarebbe – significativamente – traducibile come “guardare oltre le nuvole”, che da lassù appaiono sovente decisamente più basse. La cantina e le vigne sono tra l’altro localizzate in un’area dichiarata “patrimonio dell’Unesco” per i suoi valori naturalistici (e segnata anche dai percorsi dei fiumi Yangtze e Mekong).


Il gioco dell’uva ad Ao You va avanti ormai da più d’una dozzina d’anni. La prima vendemmia “dichiarata” è invece del 2013, con materia prima proveniente da villaggi – probabilmente annoverabili tra i “saranno famosi”, ma allora risolutamente fantasmatici sulla mappa enoica mondiale – di nome Adong, Xidang, Sinong, Shuori. Uve, impianti, metodi, tecniche, tutti – pur calati nello specialissimo territorio prescelto – risolutamente francesi (la Francia è sbarcata in Cina, enologicamente parlando, da un bel pezzo e con la consueta impattante risolutezza, sfruttando l’abbrivio di prestigio sociale e autostima affidato ai suoi vini top deluxe presso i “nuovi ricchi” cinesi, ma intanto diffondendo un trend di gusto e seminando a piene mani i sui vitigni simbolo; mentre a noi, nel frattempo, un Marco Polo bis, o un Domenico Santucci, l’inquisitore domenicano che a fine ‘300 “scoprì” e importò da lì lo zafferano nel suo natìo Abruzzo, nel campo vino sono decisamente mancati). Ovviamente francese – meglio, bordolese purosangue – è, come dicevamo più su, anche il conducator materiale del progetto. Mr. Dulou, nato e diplomato a Bordeaux, enologo viaggiatore (anche Sudafrica e Sud America tra le tappe operative precedenti all’approdo nello Yunnan), ha lavorato poi in posti come Chateau Quinault e Cheval Blanc, dove si è guadagnato la stima dei vertici del gruppo.
A Ao Yun, visto il contesto pressoché ancestrale (per dirne una: quando Dulou è arrivato in zona non c’era traccia di corrente elettrica), la scelta non poteva che essere quella della conduzione biologica e dell’assecondamento di una condizione mesoclimatica unica, che da un lato regala temperature di massima e luminosità (oltre alle influenze fluviali) paragonabili a quelle delle sue natie Rive Droite e Rive Gauche, ma ci aggiunge gli effetti (è il caso di dire) verticalizzanti della quota, con relative escursioni termiche e senza la minaccia diretta dei monsoni, stoppati dalle maestose cime guardiane (alte oltre seimila metri) che proteggono la zona.


Presentato in una raffinata confezione (il cofanetto di legno dalla “porta” a intaglio, che vuol parlare subito di antiche radici e saperi artigiani, ma abbinato poi a un’etichetta sobriamente essenziale) il vino dell’annata 2016 racconta con proprietà di linguaggio le sue uve (Cabernet Sauvignon in larga maggioranza più una pennellata di Franc), le peculiarità climatiche del suo luogo d’origine (la ’16 è un’annata, per così dire, classica seguita a una ’15 molto più calda del solito) e l’abbrivio che lo vuole collocato, con i suoi 260 euro di prezzo medio, nella fascia più che alta di mercato. Incisivo, accogliente ma non accaldato, appropriatissimo nelle note olfattive, impattante senza “fatica” gustativa, giovane e già godibile, secondo la regola aurea della “scuola” enologica di cui è rampollo, farà strada decisamente lunga. Come è giusto che avvenga per un visitatore venuto a trovarci da così lontano…

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