Nei tempi in cui persino un’opera lirica come la Turandot di Puccini viene stravolta alla prima del Teatro San Carlo, con un allestimento considerato a dir poco “particolare”, c’è chi in silenzio continua il proprio lavoro di cura e amore per il Cesanese. Damiano Ciolli è stato un vero pioniere, all’alba di un rinnovamento complessivo dello stile proposto per tale tipologia. Una varietà d’uva da cui veniva, e in parte ancora è prodotto (ammesso nel Disciplinare della Doc Cesanese di Olevano Romano) un vino frizzante dolce, retaggio di un’Italia che viveva l’approccio alle bevande alcoliche come una sorta di alimento.
La bellezza del lavoro di Damiano, invece, risiede proprio dalla consapevolezza di chi, non del mestiere, si è avvicinato alla magia della vitivinicoltura, dato che in famiglia si masticava senza dubbio di vino. Il nonno, il padre e gli zii possedevano poco più di un ettaro di vigna storica, da cui nacque la prima vendemmia nel 2001. Siamo in un’areale suddiviso a mo’ di conca, protetto dai Monti Simbruini, Ernici e Prenestini in lontananza.
Le eruzioni hanno qui portato un cambiamento nell’aspetto dei suoli, molto differenti dalla zona confinante del Piglio. Dai detriti montuosi e carbonatici si passa a materiale piroclastico e argille. Le tonalità nel calice tendono ad attenuarsi, diventando lucide e trasparenti. L’olfatto si incupisce verso nuance di prugna e humus selvatico e il gusto diventa tagliente, minerale e dalle forti connotazioni agrumate.
La visione del padre fu lungimirante nel salvaguardare dall’estirpazione gli antichi cépages, posti in località La Torre del Comune di Olevano Romano, avviando un fiorente commercio agricolo con la Capitale. Poi l’arrivo del figlio e il nuovo impulso all’attività con il supporto della moglie Letizia, con studi in enologia ed esperienza internazionale nel campo della ricerca. Due le versioni proposte del Cesanese: l’etichetta Silene per la versione d’annata e quella intitolata adesso con il suo nome, Damiano Ciolli, che una volta si chiamava Cirsium, non più utilizzabile per un cavillo legale. Entrambi i nomi furono scelti dalla passione per l’ambiente e la floricoltura, simboleggiando due piante che ben attecchiscono sul territorio.
Le fermentazioni avvengono in cantina in maniera spontanea, esclusivamente in contenitori di cemento, mentre la Riserva prosegue in rovere austriaco prima di giungere alla bottiglia. Abbiamo degustato il Silene 2022 straordinario nella sua espressione iodata e sanguigna, dal finale salmastro su variazioni di frutti rossi.
La Riserva 2021, assaggiata en primeur, è di una lunghezza quasi infinita, dalla grande spezia e ricca di erbe officinali. Uno stile che condensa l’eleganza dei Pinot Noir borgognoni con la muscolarità di alcuni Syrah dell’Alto Rodano.
La 2020, da poco in commercio, è più esile nel corpo, ma come una ballerina classica dimostra spiccata eleganza danzando tra arancia sanguinella, ribes nero e chiodi di garofano.
Vini di carattere, che marcano il terroir d’origine senza pomposità e, soprattutto, senza compromessi al ribasso.