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Cantina della Volta tra Lambrusco e Metodo Classico

La storia dell’azienda non ve la raccontiamo, c’è l’annesso filmato in cui Angela Sini spiega la “creatura” con assoluta puntualità.

E non ci effonderemo (pur se ne varrebbe la pena in modo assoluto) a proposito di Christian Bellei, maitre de cave collocato dal fato in area Lambrusco (Sorbara) e figlio, non a caso, di Beppe (anche lui champagnista), quello che comprò la vigna (fondando l’azienda) da un nobiluomo dell’epoca coi soldi infilatigli in tasca da una nonnina complice.

Lì c’è il collega Fabio Giavedoni, curatore (isieme a Giancarlo Gariglio) della Guida Slow Wine

che lo dipinge in modo così delizioso durante il “digital tasting” – l’assaggio a distanza partecipato via web in cui abbiamo testato i vini ultimi nati – da non richiedere davvero aggiunte prolisse.
Degustazione “on line” targata Cantina della Volta, dunque. Partita con una deviazione verso l’altra “casa” e patria spirituale di Beppe e Christian: quella che ha per “capitale” Reims e per uve nodali Chardonnay e un paio di Pinot.

Nel Mattaglio, il Pas Dosè che apre i giochi, sono loro a cantare la messa: il bianco più amato a Mesnil e Avize è all’80%, il Pinot Nero ha il restante 20%.

C’è un piccolo tocco di legno introdotto dopo lunga meditazione, ma soprattutto c’è il grande tocco della quota, vigne a oltre 600 metri, con conseguente caratterizzazione verticale e acida delle basi, che la stondata parziale in barrique smussa, ma dialetticamente e senza violenza.

Così il carattere è bino: la tensione, la spada, ma anche la pezza di velluto (qui cremosa di sentori delicati di forneria, più pane che croissant) ad avvolgerne il filo tagliente.
Secondo passo, il Blanc dei Noir che porta il nome del suo autore, Christian Bellei appunto, ed è un 2015. Bianco dentro, rosso fuori (la bottiglia è avvolta in un incarto semilucido scarlatto di grande effetto) esprime e inventa un modo diverso di essere Sorbara. Fa oltre 3 anni sui lieviti, spara note di fiori colorati e scorza di limone maturo, tiene bene la rotta all’assaggio, guidato da una prua acida sicura, ma portandosi dietro uno scafo gustativo tutt’altro che di piccolo cabotaggio. Vino già più da tavola, da cibo, tanto quanto il Mattaglio è da “ogni momento e in ogni modo”.


Terzo passo, elegante come uno di tango, ma senza la drammaticità intrinseca in un’aria di Gardel, anzi sorridente come una primavera, il Rosé. Colore delicato (120 minuti di contatto pellicolare, e via), spuma ancor più eterea e chiara, stesso millesimo del precedente (2015), è una piccola delizia pronta da godere. Pronta, già, perché magari con i primi due (ma anche con il prossimo alfiere del quartetto presentato) attendere un po’ è tutt’altro che un peccato, munendosi di accorte riserve in cantina. Il rosato invece sa di piccoli frutti e appunto di roselline, volteggia con grazia in bocca, ma non senza una puntura di tacchi a spillo, sexy e garantita anche qui da una spina acida e sapida in bell’equilibrio.


Si chiude il giro con il “Trentasei” (solo di nome, che di mesi sui lieviti ne fa ben di più), Lambrusco-Lambrusco, e dunque verace gentiluomo di campagna, ma mandato per meriti palesi all’università del Metodo Classico, frequentata con assoluto profitto e con laurea a pieni voti già al colore, scintillante e caratteristico. Segue un naso tessuto di frutta rossa dalla polpa golosa, venature di bosco (più appuntite che nel precedente) e di fiori, anch’essi nobilmente selvatici, più che di boutique. La bocca ha le stimmate del Sorbara, ma un fisico da schermidore alla Cyrano. È flessuoso e reattivo, e quando (davanti a un grande piatto) ci fosse da tirare, in abbinamento, il colpo decisivo, lo farà senza alcuna paura.

 

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