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Appius: il pezzo da “wine collection” di San Michele Appiano

Il disegno di produzione di vini bianchi di super élite che negli ultimi anni cantine di assoluto prestigio hanno iniziato a perseguire e sviluppare in Alto Adige arricchisce la sua parabola. Il progetto – per fare un paragone calcistico – somiglia abbastanza a quello di Superlega propugnato da un certo numero di primarie società in Europa: un contesto che vada, in parte, oltre i campionati nazionali e ridisegni in maniera più esclusiva gli stessi confini attuali di una Champions League. Tradotto in bottiglia, significa: produzione in numero limitato, caccia spasmodica alla qualità, ma anche alla diversità dei vari stilemi “en blanc” già affermati (e difficilmente insidiabili) nell’eno-mondo che conta. E dunque, ricerca obbligata centrata su marca di territorio e di “savoir faire” ad esso collegato: unico modo per rendere pezzi unici, più ancora che rari, i préstige (per rubare il termine allo Champagne) prodotti qui.


L’Appius è il pezzo da “wine collection” calato sulla scacchiera da uno dei giocatori più abili e rodati, e per conto di una delle squadre più solide: Hans Terzer, notissimo “napoleone” (ben di più che un kellermeister…) della premiata ditta San Michele Appiano. Nato nel 2010 dopo 25 anni di Sanct Valentin, seimila pezzi all’incirca che ogni anno cambiano il design della bottiglia che li veste, frutto del classico metodo del blend atesino, realizzato in balance tra vini ricavati dalle uve più importanti allevate qui, Appius è dunque anche un “portrait” – disegnato attraverso questo coro di vitigni – in prima battuta dell’annata prodotta.

Ogni anno sono i vigneti più… in forma a partecipare. Con l’apporto di micro parcelle (4-500 kg d’uva) di zone che nella specifica annata apportano nuance speciali. La vendemmia è condotta al limite, in pienezza di maturità ma attenti a non sconfinare nel sovramaturo.

Appius 2016, l’edizione in lancio, in particolare è un assemblaggio di Chardonnay 58%, Pinot Grigio al 22%, Pinot Bianco al 12% e Sauvignon per il restante 8%.
Il Sauvignon è vinificato in tonneau e fa lunga macerazione, ma non la malolattica. Lo Chardonnay e i Pinot fanno invece malolattica in tonneau e barrique dopo breve macerazione.

La scelta dei fusti promossi per il parto finale si fa un anno dopo. E così in cantina restano – per così dire – vari vice Appius di cui sarebbe certo interessante sondare le caratteristiche.
Quanto al ‘16, – racconta Terzer – era partito lento e piovoso. Ma il vecchio proverbio atesino secondo cui è l’autunno a decidere la sorte del vino si è incarnato in un settembre e ottobre <d’oro>, come ha detto icasticamente ancora Terzer.
E l’oro del fine stagione, insieme al segnale di buona sorte che l’ha contraddistinto, è migrato sulla bottiglia: scura, come si conviene per un bianco dichiaratamente da lungo percorso, e decorata da un fine tratto grafico a forma di stella: <La stella che ci porta avanti e stiamo seguendo>, ha ammiccato Terzer. Una buona stella che serve davvero più che mai a tutto il mondo dell’alimentare e del vino italiano, aggiungiamo noi.
Quanto al vino, ampio e setoso, già accogliente al primo contatto sensoriale, affascinante e variegato dal punto di vista olfattivo, arriva però ancora – com’è normale per un “deb” di tale complessità – in modo… rateale in bocca, con le componenti più caratteristiche dei pezzi del puzzle non ancor totalmente fuse, e con un lieve, delicato (appropriato e nobile) souvenir dei legni d’elevazione. Vino in divenire, grande da subito, ancor più tra un anno o due, e con lungo orizzonte predisposto, garantito da una freschezza di fondo, una quota di acidità (non puntuta, non strillata, non esibita, ma presentissima sempre lungo la traccia della beva) che è il sigillo di quest’annata complessivamente felicissima, specie se letta come pagina alternativa nel librone del torrido che ci è spesso capitato di dover sfogliare nell’ultimo decennio. Una eleganza e una promessa di grandezza che, peraltro, è ora di restituire integralmente – e orgogliosamente – al territorio e alla nazionalità di appartenenza. Atesina e italiana, cioè. Riflettendo tutti insieme sul fatto che quando la smetteremo di definire “borgognone” un nostro bianco che ci piace e che ha classe – come l’Appius 2016 – saremo finalmente diventati molto più “borgognoni” dentro, nella testa, nel modo di pensare, di quanto lo siamo, malgrado tutto il percorso fatto, ancora adesso…

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