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Champagne

Paillard “retard”: viaggio nel 2004 per il lancio del nuovo N.P.U.

Per il prestige 12 anni di lieviti e mini-dosaggio Il confronto con B. de B. e Brut pari annata

Un viaggio dentro un’annata, che a distanza di tempo – una bella distanza, ma evidentemente quella giusta – fa piacere cominciare a poter definire classica. <È l’anno dell’armonia>, riassume icastica Alice Paillard, figliola di Bruno e ormai ambasciatrice plenipotenziaria di un’azienda che continua a marcar punti e a fare centri senza pause o flessioni. Ed è chiaro che ci sia voluto un po’, un attimo di più, per inquadrarla e valorizzarla appieno, compressa com’era tra lo scintillio argentato della 2002 e l’attesa successiva per la generosa, ricca, quasi materna 2008. Ora però, data alle cose la giusta prospettiva…

E per assicurarne la giusta dose alla creatura di casa più nobile per blasone (anche se poi i conti su volumi e numeri si fanno altrove), il Nec Plus Ultra, la maison ha costruito un road show in tre tappe e mono-millesimo teso a far capire che l’idea di tener il ragazzino quasi tre lustri prima di lanciarlo nell’agone (la sboccatura è di fine 2017 con dosaggio omeopatico, 3 grammi, tanto per far capire che qui non c’era bisogno di belletto o maschere,e successiva ulteriore finitura in vetro) era tutt’altro che peregrina.

E per entrare in argomento allora – dialogando con i piatti disegnati da Francesco Apreda nella cornice intonata  di Idylio, la sua nuova casa –  ecco il Blanc des Blancs 2004. Il ticket con cui Paillard si presenta quando il gioco cui si gioca si chiama eleganza. Senza smentite neanche stavolta. Bolla leggera, nuvola senza tempesta, dimensione longilinea ma ben attrezzata di carne dove serve, il BdeB gioca le sue carte con appropriata misura.

Rilancia in largo e morbido, ma anche in sfondo vinoso, l’Assemblage Brut “collega” di millesimo. Qui le note scure hanno più spazio e incidono soprattutto sulla superficie papillare colpita d’impatto (meno affusolato e più “globale” il sorso, più avvolgente il finale).

Ma a dare il colpo che manda la pallina in buca (fosse golf, un put da fuori green, visto quanto parte da lontano) ci pensa il “signor” N.P.U. Vino e basta: fatto nella regione enoica più a nord d’Europa e con le regole d’ingaggio che la e lo Champagne prevedono, grande bolla inclusa.

Ma poi – 50% Chardonnay e 50% di “importante” Pinot Nero – eccolo là a dialogare con il vitello alle foglie di fico (la cui nudità sottostante è velata da pesche e funghi in dialettico connubio) approntato per l’occasione da mastro Apreda.

Risultato: quello che promette e merita un figlio di soli grand cru, fermentato in barrique vecchie – e “neutre” – dov’è rimasto 10 mesi prima di assemblaggio e rifermentazione, per poi farsi la dozzina d’anni sui lieviti di cui s’è detto sopra.  Eccola allora l’armonia: d’orchestra, e non di arpa e flauto, tra frutta mista e golosa (inclusa la piccola rossa e matura) e il corteggio floreale che l’accompagna, tingendosi nel finale di spezia e d’importanti note balsamiche.

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