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MAMETE PREVOSTINI IN VALTELLINA: passato, presente e futuro del Nebbiolo delle Alpi

Inizio con una premessa: è il mio primo articolo dedicato a questa terra, costantemente occupato a narrare di whisky di malto, ho relegato la Valtellina al mio universo intimo. Ho quindi la necessità di raccontarmi.

Non ho mai amato granché il termine di “eroica” per definire la coltivazione della vite che accomuna questa terra, la Valtellina, ad altre in Italia, come Pantelleria, le Cinque Terre, alcuni versanti del Trentino o del Carso friulano, oppure la Sila e il Pollino a titolo di esempio.

Sono molti anni che talvolta più di una volta l’anno, torno in quella che è diventata la mia terra d’adozione, e l’aver sposato una sua originaria fa sì che ora nei figli scorra parte di sangue valtellinese. Nel mio no, purtroppo, ma avverto di farne parte ugualmente, e per citare Casimiro Maule, storico (ormai ex) enologo della cantina Nino Negri, mi sento più valtellinese dei valtellinesi.

Tutte le volte, lasciata la strada statale 36 e il lago di Como, entro in questa valle che accogliendomi smuove emozioni sopite dalla metropoli da cui giungo. Superata la città di Morbegno, osservando alla mia sinistra il versante retico, assolato, esposto a sud, oltre al quale c’è il più esteso dei Cantoni svizzeri dei Grigioni (Graubünden) a cui la valle apparteneva fino all’intervento di Napoleone nel 1797, che mirando i vigneti su minuti terrazzamenti sorretti da muretti a secco chiamati in dialetto garof, ritualmente mi interrogo: chi ve lo fa fare?

D’altro canto è un bene che questi filari esistano poiché nemmeno chi il vino non lo ama può sottrarsi al loro indiscutibile fascino.

Da Berbenno proseguendo in direzione di Tirano, i vigneti si estendono avviluppando il versante e, imponenti, glorificano le cinque sottozone del Valtellina Superiore: Maroggia, Sassella, Grumello, Inferno, Valgella.

Ma siamo certi che si tratti di eroismo, o di qualunque altra virtù, anziché di amore per le proprie terre?

Al giorno d’oggi non si è obbligati a perseguire la vite in luoghi dove non può crescere in altro modo, su terreni impervi, stretti, scoscesi, e dove raramente mezzi meccanici possono giungere in soccorso dell’uomo, e la gerla sulle spalle era d’obbligo durante la vendemmia. In un mondo dove tutto è a portata e che sembri rifuggire la fatica, continuare a curare tali vigneti deve essere per forza un atto d’amore.

Fu letteralmente un colpo di fulmine quando visitai questa terra per la prima volta, e compresi che c’era un ulteriore sentimento in comune con la mia compagna di vita. La valle mi stregò, mi scelse come accade quando hai l’impressione siano gli animali domestici a scegliere te e non tu loro, esercito ogni volta un controllo su me stesso per restare obiettivo nel parlarne, ne dipendo completamente, le appartengo.

Nel 1988 per la prima volta raggiunsi la Costiera dei Cech (si dibatte tutt’ora sull’origine del nome: deriva dai riformisti franchi, oppure da ciechi in quanto progressisti quindi esclusi dalla verità, ma in fondo cosa importa?), satura di romanità che stupì anche Mario Soldati, nel suo lungo soggiorno avventuroso in Valtellina del 1982 vedendo a Caspano così tante targhe automobilistiche della Capitale.

Sapendo della passione del vino che coltivavo fin a quei tempi, trovai in tavola dello sfuso che regolarmente i miei futuri suoceri consumavano: era del Sangiovese toscano. Quasi mi dissuasero a cercarne del luogo, definito da loro difficile, acido e amaro: meglio quel succo d’uva che scorreva a dovere.

E poi c’era il problema della prolungata maturazione e alcolicità del vino valtellinese, ma lascio la parola a Mario Soldati:

… sempre vini troppo alcolici, troppo liquorosi, troppo invecchiati. Ero stato in Valtellina nel 1968, ai suoi vini avevo dedicato con profondo entusiasmo un intero capitolo del libro, e già allora, qui, c’era la moda dei vini vecchi, ma non avevano questo sapore metallico, così simile al sapore dei vini di California! Già allora, qui, esistevano anche i vini giovani come oggi: oggi sono meno facili da trovare: quando poi li si trova sono peggiori dei giovani di allora benché migliori dei vecchi di oggi!

Proprio a fine anni ottanta, tuttavia, fu gettato un seme. Stava per accadere qualcosa di innovativo, di rivoluzionario, nelle vigne coltivate essenzialmente a Nebbiolo, ben diverso dal celebrato piemontese, dal grappolo più spargolo e maggiormente pruinoso, di migliorativo soprattutto durante la vinificazione (poiché l’uva di base era ottima), con il progressivo abbandono delle botti di castagno, gigantesche e adoperate innumerevoli volte, e quando pochi anni dopo portai a Peppino e Adriana (i miei suoceri) una bottiglia in assaggio, mi risposero: “Buono, sei sicuro che è di qui?”

Una delle poche cose che rivendico nella mia vita è d’aver insistito affinché queste due persone, che hanno fatto tutto il possibile per aiutarmi a perseguire i miei interessi, potessero conoscere il nuovo corso del Chiavennasca, come qui è denominato il Nebbiolo, in precedenza non amato, prima di tornare a far parte di questa splendida valle per sempre.

Ma non sono l’unico a venerare la Valtellina: una persona proveniente dalla vicina Val Chiavenna dal quale prende il nome il vitigno, dedica da sempre la vita a valorizzare il potenziale del Nebbiolo locale ed è uno degli artefici della rivoluzione enoica.

È Mamete Prevostini e la sua storia e quella dell’azienda di famiglia meritano d’esser raccontate.

Il suo nome mi condusse in errore, convinto avesse origini comasche. Difatti il martire cristiano Mamete di Cesarea, patrono delle balie e protettore degli animali, è molto amato in quella provincia. Invece il nostro è di Mese, paesino poco prima di Chiavenna, e Mamete, oltre ad essere il nome del nonno, era il santo a cui era dedicata la chiesa più antica della cittadina prima che l’alluvione del 1888 l’allagasse e definitivamente la travolse nel 1927.

PASSATO

Il passato della cantina Mamete Prevostini è anche una parte del presente.

I nonni Maria e Mamete, contadini nati rispettivamente nel 1900 e 1901, acquistarono nel 1928 un crotto, il crotasc, vale a dire una cavità naturale fresca e ventilata dove soffia il vento sorèl dall’interno della montagna, un luogo che funge da frigorifero naturale per temperatura e umidità costanti nell’anno, dove porre generi alimentari e vino per la conservazione. Cominciarono a proporre agli avventori che si recavano in Svizzera la loro produzione di verdure, formaggi e salumi (è proprio in Val Chiavenna che nasce la brisaola posta nei crotti ad affinare, e il celebre Violino di capra) e vino sfuso, in sostanza crearono una sorta di agriturismo ante litteram con somministrazione di piatti freddi.

Fu il primo crotto ad aprire al pubblico in Val Chiavenna e ora, chi conosce questa valle e la Bassa Valtellina, sa quanto siano una vincente attrazione enogastronomica. Tutto ciò fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni cinquanta, a seguito dello sviluppo del turismo sciistico, fu inserita la cucina vera e propria diventando un ristorante a tutti gli effetti. Ai nonni di Mamete succederà il papà Ivo, e ora il Crotasc, la cui sala più antica, la Cascina, riporta sul pavimento in sasso la data del 1767, è condotto dalla sorella di Mamete, Michela. Attualmente il luogo funge da sito logistico con la cantina storica dell’azienda.

Crotasc

PRESENTE

 Il presente è incentrato interamente sulla figura di Mamete. Classe 1967, frequenta la scuola enologica di Conegliano diplomandosi il 10 luglio 1987 a 20 anni. E ora?

Decide di operare concretamente nel mondo del vino rivolgendosi alla cantina più famosa e produttiva del passato e del presente della Valtellina: Nino Negri. Il primo settembre dello stesso anno è lì, con l’intenzione di rimanervi poco. Vi resta invece quasi per quattro anni, seguendo le vendemmie 1988/1990. Acquisita l’esperienza sul campo, i tempi sono maturi per lavorare in proprio e dopo un triennio disastroso per la vite in valle, comincia a sperimentare a fare il suo vino, qui in Valtellina luogo di cui si è innamorato. Nel 1996, con un inizio di rispetto di 25 mila esemplari, arrivano i primi imbottigliamenti a firma Mamete Prevostini. Acquista la sua prima vigna situata a Triasso, poco prima di Sondrio. La particolarità di questa è trovarsi su un dosso roccioso nell’area del Sassella, un unico cru a 400 metri  di altezza. Darà vita al vino con cui diverrà noto, per cui lo conobbi, e per non dimenticare le sue origini chiavennasche lo chiamerà Sommarovina, come il borgo presso il suo paese di origine, situato, esattamente come la vigna, su un pendio di roccia.

Sommarovina

Il cambio di passo giunge a proposito poiché da poco era accaduto qualcosa, un ulteriore motivo per abbandonare il vino sfuso e puntare al miglioramento di quello in bottiglia.

Ho menzionato la vicina Svizzera, e il vino valtellinese, in quanto prodotto da frontalieri, godeva di una convenzione con gli elvetici sul dazio doganale. Si trattava essenzialmente di quello sfuso e, come talvolta accade, un privilegio può trasformarsi in un danno. Il vino valtellinese scese progressivamente di qualità, tanto gli svizzeri lo acquistavano comunque. Il periodo più buio fu a metà anni novanta, quando la concessione fu estesa a tutti i prodotti italiani. La Svizzera fu invasa di vino di fattura migliore e che aveva un prezzo inferiore, poiché a differenza del valtellinese non prodotto con la raccolta delle uve a mano su terrazzamenti con costi più alti. Ma toccando il fondo, è risaputo, se non si intende perire non si può che emergere.

Mamete affitta una piccola cantina, ma la produzione avviene perlopiù in quella vecchia di famiglia a Mese. Le bottiglie annue crescono a 50 mila. Fare vino che si discosta da quello del passato risulta possibile, e sarà contagioso.

Nel 2009 Mamete Prevostini diventa il Presidente del Consorzio di Tutela dei Vini di Valtellina (fondato nel 1976), carica che riveste per tre mandati, fino al 2018, l’unico consorzio italiano che possa vantare ben due D.O.C.G. coincidenti per territorio e vitigno (Valtellina Superiore e Sforzato di Valtellina).

Succede al già menzionato Casimiro Maule dopo dodici anni di mandato. Al suo fianco, Mamete avrà Aldo Rainoldi ed Emanuele Pellizzati Perego, due importanti nomi nel mondo del vino in Valtellina.

Le sue priorità vedono al primo posto il dialogo. Sogna, come ci ha confessato, di vedere nelle carte dei vini dei ristoranti e degli alberghi, non una ma almeno cinque etichette provenienti da questa terra, anche a discapito della presenza del suo vino.

Ha avuto l’enorme pregio di essere aggregante, convincendo numerosi produttori ad associarsi, e se attualmente sono 54 gli aderenti al consorzio su poco meno di un centinaio di effettivi operatori, grande merito è suo. Resta comunque in mano a dieci cantine storiche il 70% della produzione.

Oggi il vino valtellinese è molto più diffuso, affermato e valorizzato: anche nelle Alpi esiste un Nebbiolo degno di attenzione.

Manca ancora una cosa a Mamete, una propria cantina in Valtellina. Sarà inaugurata nel 2012 a Postalesio a 350 metri di quota, dove l’ho incontrato.

Si tratta di un parallelepipedo color bordeaux, progettato per lavorare l’uva a caduta su tre piani. Nel superiore avviene l’appassimento (per lo Sforzato) e la pigiatura dell’uva, in quello intermedio la fermentazione, e nel piano interrato l’affinamento dei vini. Difatti, per vedere il luogo di stoccaggio delle botti, scendiamo di 15 metri. Qui la temperatura è costante tutto l’anno tra i 14 e i 16 gradi, con umidità dell’80%, non si ricorre al condizionamento.

 

lo stoccaggio botti

Inoltre la cantina ha la certificazione di Casaclima Wine, un ente della Provincia Autonoma di Bolzano, vale a dire che ha un bassissimo consumo energetico e rispetta la natura e il clima.

Maggiori informazioni le trovate nel sito dell’azienda.

https://www.mameteprevostini.com/news/cantina-casa-clima.html

La Valtellina è per composizione del terreno, clima, forti escursioni termiche, vocata per i vini rossi. Per impiantare vitigni a bacca bianca occorrono luoghi ed esposizioni particolari. Proprio davanti alla cantina, Mamete indica una conoide alluvionale che ospita le viti dei bianchi.

È il tipo di terreno detritico più adatto a questi, un progetto a cui crede molto. Sono le uve che danno luogo al vino bianco valtellinese a mio parere più importante. Si chiama Opera, ed è nato nel 2001, ha una produzione annua attorno alle 13 mila bottiglie, frutto dell’assemblaggio di Chardonnay, Sauvignon, Pinot Bianco e Incrocio Manzoni, che fa una parte della maturazione in barrique, e dove i protagonisti aromatici sono fruttati, albicocca in particolare, e con note minerali.

il blend a bacca bianca Opera

L’azienda ha un totale di 34 ettari vitati di proprietà con produzione di circa 200 mila bottiglie annue.

Il 45% pari a 90 mila bottiglie, sono esportate annualmente. La Svizzera con 40.000 ha la parte del leone, dato che  rappresenta il 20% del complessivo. Seguono in ordine di importanza Usa, Canada, Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio, Norvegia, Austria, Singapore e infine Giappone. Un buon risultato che tuttavia Mamete intende migliorare.

Il sistema d’allevamento della vite è il guyot e la maturazione di tutti i vini rossi tranne due che non fanno maturazione in legno e uno di cui accenneremo più avanti, avviene in un marriage fra barrique (ve ne sono 350/400), tonneau da 500 litri (un centinaio) e botti da 25 ettolitri (esattamente 22).

Sono in produzione a nome di Mamete Prevostini tredici vini: due rossi giovani che maturano in acciaio, quattro Valtellina Superiore (un Grumello, due Sassella, un Inferno), due Sforzato, il bianco Opera, un rosato da Nebbiolo, e un passito da uve Traminer e Riesling prodotto a Piuro in Val Chiavenna. Un quattordicesimo appena uscito è un metodo classico da uve Chardonnay e Pinot Nero che dobbiamo ancora assaggiare, ne riparleremo. A questi se ne aggiungono altri quattro di cui accennerò più avanti nel capitolo che segue.

Terminata la visita della cantina prendiamo l’auto per spostarci sopra Sondrio, nella frazione Sant’Anna poiché ci attende il…

FUTURO

Il futuro che è anche un presente. Alcune persone sono responsabili, consapevolmente o meno, d’aver indirizzato la nostra vita verso percorsi a cui, con ragionevole dose di probabilità, non saremmo mai giunti. Se queste strade hanno portato beneficio dobbiamo a costoro eterna riconoscenza e ognuno di noi, cercando nella propria memoria, può individuare almeno un caso. Così è stato per Mamete nel 2004, quando un suo amico lo informa che le suore del Convento di San Lorenzo, a causa della loro ingente età, sono stanche di coltivare il vigneto e cercano di affittarlo. Si tratta di poco meno di due ettari che si sviluppano al di sotto dell’edificio. Mamete si prende carico del Nebbiolo qui coltivato ed effettua la prima vendemmia l’anno successivo.

C’è un particolare che contraddistingue questo appezzamento da ogni altro: è un cru interamente cinto da delle mura. In sostanza è un clos, come si usa dire in Francia, una soluzione spesso adottata proprio nei vigneti dei monasteri cistercensi per proteggerli e creare un mesoclima. Un clos in Valtellina è un fatto straordinario, tant’è che è l’unico, e potrebbe esserlo (non ne abbiamo certezza) dell’intera Lombardia.

Alla quarta vendemmia nel 2008, Mamete cambia la disposizione dei filari da rittochino a quella orizzontale di giropoggio, uniformandola a tutti gli altri suoi vigneti. Il posto è veramente speciale, neanche molto in pendenza, e con gli anni egli prosegue le acquisizioni confinanti oltre le mura, fino a giungere a un intero appezzamento di otto ettari che al suo interno ha l’enclave del pregiatissimo clos.

Nel 2009 la madre superiora suor Agnese, comunica a Mamete che lasceranno il convento, spostandosi in città. È la fine di questa struttura a cura della congregazione svizzera di Santa Croce di Menzingen che attraverso delle religiose italiane, si prefiggeva di educare le donne, con il cucito ed altro, e gestendo al suo interno un asilo. Negli anni ’70, nel periodo del suo massimo splendore, il convento ospitava circa 120 suore, mentre al momento del suo abbandono ne erano rimaste una scarsa decina. Nel 2013 la congregazione decide di vendere l’immobile. Mamete è naturalmente interessato ai vigneti, conoscendo il loro potenziale e per averci lavorato per nove anni, ma la richiesta avanzata è sull’intera struttura. La scelta è praticamente obbligata a proseguire con il solo vigneto in conduzione.

Da queste vigne si producono quattro vini a nome di Convento di San Lorenzo: un Rosso di Valtellina, uno Sforzato, un Sassella, e infine il Sassella Riserva Clos San Lorenzo che è l’unico vino tra tutti quelli prodotti da Mamete a eseguire la malolattica in legno e l’intera maturazione in tonneau nuove. 

Arriva infine il Covid che cambia totalmente le regole del nostro vivere, la richiesta per convento e vigneti diventa più ragionevole rispetto a quella di partenza e a Mamete nasce un’idea.

Nel 2022, dopo tredici anni di chiusura, Mamete Prevostini acquista il clos e tutto l’edificio del Convento di San Lorenzo. Un investimento effettuato interamente in famiglia, stiamo parlando di circa 7500 mq coperti, esclusa la chiesa, di una struttura risalente al 1100 e interamente vincolata dalla Soprintendenza delle Belle Arti. Chi percorre la statale 38 che termina a Bormio, non può non vedere l’edificio che, imponente, domina Sondrio.

Il Chiostro del Convento San Lorenzo

Ho avuto il privilegio di visitarlo assieme a mia moglie, con lavori in corso d’opera. Il luogo è affascinante, al suo interno vi è un chiostro, degli affreschi alle pareti, una piccola chiesa riccamente decorata, e un terrazzo con vista da togliere il fiato, dove si ammira Sondrio, la valle, le montagne, ma soprattutto poco sotto i vigneti del clos e quelli attigui.

Sulla terrazza del convento con Mamete Prevostini

Si procederà per passi e consolidamenti: in tarda estate sarà pronta una sala degustazione dove poter assaggiare i vini, in seguito lo spazio è talmente vasto da consentire un locale di ristorazione, ed infine col tempo, l’edificio potrebbe ospitare chi desidera fare l’esperienza di soggiornare in un luogo che fino a un recente passato è stato un convento.

 GLI ASSAGGI 

Rosso di Valtellina Santarita 2022 13.5%

Il nome deriva dal giorno in cui è stato imbottigliato per la prima volta, il 22 maggio in cui si celebra Santa Rita.Terreno privo di calcare, sabbioso al 70% e limoso al 30%.Uve provenienti dai comuni di Berbenno di Valtellina, Castione Andevenno e Tirano, tra i 400 e i 650 metri di altezza. Produzione annua media 35 mila/40 mila bottiglie. Prima annata 2003. Macerazione sulle bucce per 7 giorni in acciaio dove svolge la malolattica e matura per 10 mesi (l’altro vino rosso vinificato in acciaio si chiama Botonero, dal bottone nero residuo della lavorazione delle pentole in pietra ollare tradizionali della Val Chiavenna chiamate lavec). Percorre un successivo affinamento in bottiglia per ulteriori 6 mesi. Gradevole, con sentori di fragolina selvatica di bosco, lamponi acerbi. Rose e iris sono il contributo floreale al vino. Fresco e fragrante, con un corpo nella media, leggero, con sentori di ciliegia non matura e di violette. Asciutto e di versatilità gastronomica, dotato di buona persistenza.

Valtellina Superiore Grumello Vigna Sassina 2019 14%(raccomandiamo l’accento sulla “I”)

Uve provenienti dal comune di Montagna in Valtellina a 400 metri di quota. Produzione di 6500 bottiglie. Terreno privo di calcare, sabbioso all’80% e limoso al 20%. Si tratta dell’ultimo nato, il tredicesimo vino aziendale e il 2019 è il primo anno di produzione, in precedenza le uve di questo cru storico Vigna Sassina, confluivano nel blend Grumello di casa, chiamato Garof.

È una vigna speciale, che cresce strappata alla roccia, dove la vite va in sofferenza. Macerazione sulle bucce per 15 giorni a 25  °C. Malolattica in acciaio e maturazione in fusti di rovere minimo per 12 mesi. Affinamento in bottiglia per ulteriori 10 mesi. Se il buongiorno si vede dal mattino… Sembra convincente la scelta di Mamete di dedicargli un cru a sé stante. Elegante e privo di quella semplicità e freschezza di certi Grumello, con percezioni di piccoli frutti rossi, quali la fragolina di bosco e il mirtillo che deliziano e proseguono in una leggera nota speziata. Non mancano suggestioni minerali. Vino decisamente elegante, con tannini vellutati e di buon corpo, armonico e di lunga persistenza. Da riprovare con qualche anno di ulteriore maturazione in bottiglia.

Valtellina Superiore Riserva 2018 14.5%

Uve provenienti dai comuni di Montagna in Valtellina, Sondrio e Teglio da 500 metri di altitudine in su. Produzione di 6000 bottiglie. Terreno privo di calcare, sabbioso all’80% e limoso al 20%. Raccolta scrupolosamente a mano dai vigneti più alti con uve da vendemmia tardiva, con maturazione dei grappoli all’estremo, fino a quando gli acini rilasciano la goccia. Fermentazione sulle bucce per 21 giorni. Malolattica in acciaio e maturazione in fusti di rovere per circa 30 mesi. Affinamento in bottiglia per ulteriori 12 mesi. Prima annata 2006. Troviamo protagonisti i sentori di rosa appassita ed altri fiori secchi, e anche una confettura di frutti rossi. Ulteriori suggestioni speziate, di liquirizia e di cuoio. Un vino equilibrato, fine e caldo, il sorso è pieno, masticabile, e di grande persistenza gustativa, con richiami al bosco e ai lamponi selvatici.

Sforzato di Valtellina Albareda 2019 16%

Appassimento sui graticci dei migliori grappoli spargoli e perfettamente sani, del Valtellina Superiore Grumello e Sassella per 100 giorni. Produzione di 8000 bottiglie. Fermentazione sulle bucce per 26 giorni. Maturazione in botte per 20 mesi e affinamento in bottiglia per ulteriori 10 mesi. Prima annata 1998. Attacco vigoroso, con frutti di bosco, prugne mature, liquirizia e cioccolato, frutta secca e tanta uva passa. A tratti balsamico, non manca una nota speziata di anice stellato. Ritorni di piccoli frutti rossi in un vino spesso e confortevole, denso e glicerico, dotato di gran corpo e anche di freschezza. I tannini sono presenti ma piuttosto fini e nella sua lunga persistenza, non manca di rammentare una nota minerale. Termino l’articolo con una confidenza: sono oramai circa trenta anni che quando mi trovo in Valtellina, a tavola assaggio esclusivamente i vini di questa valle. Raramente faccio una eccezione. Chissà cosa ne avrebbe scritto oggi Mario Soldati… sono convinto che ne sarebbe stato felice.

 

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Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.

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