Il conto alla rovescia va avanti: meno 4 alla edizione 170, meno 9 alla 175. Ma aspettando le cifre tonde e/o fatidiche, il dream team di Krug non smette un attimo di lavorare. Appena finito, in casa madre, l’assemblaggio della Cuvée numero 173 (la materializzazione del sogno di Joseph Krug, il fondatore che imparò il mestiere dai Jacquesson e poi si mise in proprio con un’idea magica in testa, quella di fondere il meglio di tutto quello che, in un arco temporale sufficiente, le vigne gli avrebbero regalato per esprimere a ogni uscita del suo Champagne il massimo del godimento possibile, ha il suo start storico nel 1845, due anni dopo la fondazione della ditta), ecco il via alla tournée mondiale, con tappa di lusso in Italia – una delle “case” di Krug, uno dei paesi più affezionati, e dunque cari alla griffe – per la “vernice” della Grande Cuvée 166 e, come cadeau aggiuntivo, del raro Rosé, che esce, al contrario del fratellino dorato, quasi ogni morte di papa (e vita sufficientemente prolifera e brillante di Pinot Noir maison). E che in questa sua incarnazione numero 21 è basata nientemeno che sull’annatona 2008, opulenta e sontuosa – come ben si sa, e come alcune ultime uscite hanno ribadito – nella zona da vino che ha Reims per capitale.
Come è ormai regola, ogni presentazione Krug è un evento. Non nel senso ormai liso e consumatello con cui qualsiasi signor nessuno pretende che lo sia la sua raffazzonata press conference o la sua merendina con degustazione, ma perché dietro c’è idea, regia accorta, ambientazione. E soprattutto un drive. Un’intenzione ragionata, pesata. Una strategia coerente. Come quella di Krug da quando la griffe ha cambiato stile, look, e implicitamente target, spostando i suoi interessi primari – e le modalità della sua tipologia di comunicazione – dalla borghesia alta, decisamente anzianotta, in grisaglia e con Diner’s nel portafogli di coccodrillo (e nelle punte più consapevoli gelosamente persuasa della propria alta levatura di connoisseurs) alla new smart society globale, dall’Asia al Brasile, passando ovviamente per la Russia dei Paperoni quarantenni e i paesi baltici. Con sforzo vistoso di abbassamento di età dei fruitori, presenza e uso massiccio e accorto dei social, e sfruttamento parallelo e integrale delle possibilità del digitale nella costruzione di una nuova immagine. Quella del Krug che da mistero per superintenditori riccastri diventa trasparenza e leggibilità assoluta e per tutti i nuovi curiosi attraverso una app. E in generale vuole parlare – sempre mantenendo il massimo livello di godimento, secondo le regole di Joseph – un linguaggio il più contemporaneo possibile.
Una new story cominciata peraltro proprio in Italia, nel giardino del ristorante di Antonino “sberla”Cannavacciuolo, quando il mitico Clos d’Ambonnay (costosissimo e divisivo, visto che aveva in un battito di ciglia e con una scelta commerciale forse discutibile e non del tutto provvida scalzato come top wine della casa il venerato Mesnil) venne presentato, e generosamente versato, a merenda dalla neo subentrata capo azienda Maggie Henriquez e dal “gran testimone” Olivier Krug abbinato a un rinforzino di paccheri ideologicamente paragonabile alla cacio & pepe di mezzanotte che si fa a casa di amici dopo una bella festa riuscita.
Da allora non si è più tornati indietro. La sdrammatizzazione pop (senza sconti sulla reputazione enoica) di Krug è andata avanti con scoppiettante coerenza. Il Mesnil è sbarcato in pizzeria (la più trendy e gourmet di Milano, ovviamente). Le Cuvée trovano ogni volta un gioco e una ambientazione (un “gancio”, si direbbe parlando di plot o di sceneggiature cinematografiche) diversi e consonanti.
Per la 166, doppio (e ovviamente gratificantissimo) game. KrugxFish, pesce dopo la pizza e il pacchero. Dove? A Portofino, la capitale. Come? Arrivandoci in barca e con un prequel duplice: quello della cena di benvenuto e rodaggio, ma soprattutto quello “ostricaro” e crudista presso la classica baracchina sul molo reinventata per l’occasione, dopo traversata del golfo. Poi tutti su, nel Castello Brown con vista a picco sulle feste di Dolce & Gabbana, che hanno la villa appena sotto, per un garden lunch con ricco sottofondo musicale live. Perché pop è pop. E punto lì.
Da là in poi, parola a Olivier (il gran sacerdote della setta più gratificata del mondo, probabilmente: i kruglovers) e ai vini. E alla cucina marinaramente essenziale di Langosteria, indirizzo milanese proliferato e reincarnato causa successo, e approdato alla fine a Paraggi in una sorta di pellegrinaggio alla rovescia, un “back to the roots” del pesce che Mimmo Soranno cucina e timbra per le Langosterie tutte.
La 166, dunque. Sboccata a dicembre 2017 (KrugID, il sistema di trasparenza di cui sopra dice tutto), mette insieme 140 vini di 13 millesimi (il più agée è il 1998) ma è ancorata attorno all’annata 2010, che è la principale azionista di un blend in cui anche la 2000 e la 2006 hanno trovato per diversi motivi spazi significativi. Annata non facilissima, peraltro, la ‘10. Dove, per esempio, i Meunier (16% nel blend) hanno dato forse più gioie dello Chardonnay, qui al 39%, con il resto (45%) coperto da una squadra di Pinot Noir chiamata a dare insieme sostanza e vinosità. L’esito? Non leggero. Non smilzo. Non pesante. Non foderante. Verrebbe da dire:dialettico. Perché piacevole da subito, eppure fine. Nota appena rotonda al gusto, ma subito contrastata da un agrume non tesissimo ma efficace, e profumato di mandarino. Il finale è fortemente speziato, e parla di una Cuvée gastronomica. E al lunch infatti ha tenuto banco contro sashimi di palamita con brunoise alla mediterranea o tartare di ricciola e gamberi viola con centrifuga di jalapeno, yuzu, cetriolo; baccalà mantecato con tiepido al pomodoro e panisse fritta; dentice con patate alla camomilla pomodoro candito e chips di porro e lasagnetta al pesto con crudo di scampi marinati (oh, non tutto insieme! Quella su è la sintesi di cena d’abbrivio e pranzo di consacrazione). Per i fanatici del voto: 92/100.
Poi, largo al Rosé, raro e caro ovviamente (per questo motivo) in tutti i sensi. Annata portante – già detto – la satrapica 2008. Assemblaggio di 57 pezzi di mosaico, un 2000 il più attempato. Con dentro 51% di Pinot Noir (di cui 10% vinificato in rosso, secondo la storica modalità della casa), 41% di Chardonnay e 8% di Meunier. E via alla gioia. E alla solita strizzata d’occhi pop. Perché questo è un grande Rosé, un grande Champagne in genere, e cosa ci mettiamo sopra? Già mi pare di sentirlo declinato a Roma: “Ahò, famose ‘na bella grigliata…”.
E quello è stato fatto. Il “giudizio di Dio” per il Rosé 21, collaudato la sera prima sui paccheri (le stesse cose ritornano, scriveva un grandissimo autore mitteleuropeo, Musil) con triglie del golfo ligure antistante, è consistito nel farlo camminare sui… carboni ardenti, su cui Soranno e i suoi hanno scottato (e pochissimo di più) astici, scampi e un derby da supertifosi del mare tra gamberi di Sanremo e di Santa Margherita.
Come ne è uscito il vino? Beh neanche il più stizzoso degli inquisitori – credo – avrebbe avuto da ridire. Servito in un nuovo bicchiere dedicato (un tulipano ampiamente scanalato sui fianchi) al debutto anch’esso nell’occasione, si è presentato con profumi di impatto e complessità già da campioncino, mixando piccoli frutti rossi (fragolina in primis) e note pepate e di fiori essiccati, ed esplodendo poi al palato con una incisività e insieme un’avvolgenza di rango, e una lunghezza proporzionale. Tradotto (per i soliti maniaci) in centesimi, fa all’incirca 96. Lira più, lira meno. Ah, a proposito: il 166 Cuvée viaggia sui 160 euro. Questo Rosé a non meno di 280. A trovarne… perché presso molti dei “soliti” web market risulta già esaurito.
Dunque, se avete in progetto ‘na grigliata de pesce ‘n terazza, a regà, tocca che ve date ‘na mossa…
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