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Il Vermut con la V maiuscola del Monastero di San Masseo di Assisi

In passato chi scrive è stato un negoziante di vino.

L’enoteca era considerata fra quelle “naturali” e non posso negare che lo fosse, tuttavia, l’inevitabile domanda sui lieviti posta ai produttori che s’incontravano non era che la seconda. Anteriore all’assaggio, la prima era: di chi è la proprietà?

Non vi è nulla di male che un’industria farmaceutica, una compagnia d’assicurazione, un armatore, uno studio notarile, un istituto bancario, un fondo d’investimento ecc., si interessino al vino al punto da voler investire in esso.

Scegliere di non avere in negozio tali prodotti, prescindeva dalla qualità effettiva dei vini o da una ipotetica legittimità a esercitare un lavoro destinato in origine a un vigneron. Espletavamo, assieme al socio e amico che vi lavorava, il libero arbitrio di coloro che investono il proprio denaro seguendo un ideale, giusto o sbagliato che fosse. Desideravamo promuovere solo chi si sporcava effettivamente le mani ed era artefice della propria azienda, pensando che fossero portavoce di un valore specifico. Un rapporto nella conduzione dell’uomo sulla natura come avveniva nel passato e che in alcuni casi sconfinava con la spiritualità: biologico, biodinamico o naturale, erano tutti concetti susseguenti. Vien da sé che non poteva esserci reclusione verso i primi enologi della storia, chi portò la coltivazione della vite ai massimi livelli di produzione: i monaci.

 

C’è poi una motivazione puramente personale: la lettura delle opere di due scrittori francesi a noi cari, Joris-Karl Huysmans e Michel Houellebecq, ha determinato un interesse verso la vita monastica.

Foto aerea del Convento di San Masseo (credits: Roberto Merlotti)

San Masseo è un monastero benedettino ai piedi di Assisi che ha quasi mille anni di storia. Già nel 1059 i monaci avevano provveduto a bonificare e dissodare il suolo e, attraverso la costruzione di sistemi di raccolta delle acque, a poter coltivare l’ulivo e la vite.

Le notizie che ci sono giunte sul Frate francescano Masseo sono quantitativamente scarse.

San Masseo

 

Si sa che nacque verso la fine del XII secolo a Marignano, da non confondersi col luogo della battaglia omonima (detta anche Battaglia dei Giganti) avvenuta a sud est di Milano nel 1515 ma, come ci spiega lo storico Arnaldo Fortini, era una piccola terra del contado di Assisi. Nel 1210 entrò giovanissimo a far parte dell’Ordine dei frati. Era di bell’aspetto, prestante, assennato, sempre sorridente, umile e non apprezzava affatto la maldicenza. Menzionato numerose volte ne I Fioretti, era molto amato e rispettato da San Francesco essendo il più “vicino” dei suoi discepoli, uno dei preferiti nel pellegrinaggio da un luogo all’altro. L’imponente figura del frate Masseo si contrapponeva a quella di Francesco, piuttosto esile e magrolino, e questa diversità fu probabilmente un collante fra i due. Ebbe lunga vita: morì nel 1280 con oltre 80 anni di vita e ora riposa nella tomba accanto al Santo nella cripta della Basilica di Assisi.

 

La comunità monastica di Bose, fondata a Magnago presso Biella, in Piemonte, nel 1965 da Enzo Bianchi, che raccoglie monaci di entrambi i sessi anche provenienti da chiese non cristiane, decide nel 2011 di restaurare questo antico luogo e di riportare la vita monastica.

Abside dalla vigna

La comunità possiede anche una casa editrice, la Qiqajon, dedicata a testi religiosi e spirituali che fra i numerosi autori vanta anche Erri De Luca, con il libro Opera Prima.

Qui si producono dei vini biologici certificati Bio-Agri-Cert, e un vermut.

Le bottiglie di vetro scuro e pesante (quella del vermut l’abbiamo messa sulla bilancia: 850 grammi, ma si uniformerà al peso di quelle del vino) sono corredate da una etichetta molto bella e simbolica: una sorta di vetrata ecclesiastica che riporta in alternanza al suo interno delle foglie e delle civette. Il rapace notturno simboleggia la sapienza della dea Atena (il termine in latino dell’animale è in effetti Athene noctua) che i primi monaci adottarono a emblema della loro sapienza, vigilanza e solitudine, tipiche anche della civetta.

Siamo in Umbria e non stupisce trovare due espressioni del Grechetto, biotipo Todi, con uve raccolte a mano. Due Assisi Grechetto Dop, il primo che fa solo acciaio, e il secondo, “Masseo”, che effettua fermentazione in barrique di rovere, con bâtonnage, un successivo anno di affinamento, e almeno sei mesi in bottiglia.

Del “Rubeum”, Rosso Umbria Igt a base Merlot, possiamo dire qualcosa in più avendo assaggiato il 2022. Affinato per un anno in acciaio, il vino non sembra voglia cercare suadenza e setosità ma ha una spalla acida che invita alla beva, con riconoscimenti floreali (viola mammola) e frutti di bosco (lampone, ribes, mirtillo rosso), e un finale, non eccessivamente lungo, minerale.

 

Ma veniamo al prodotto che più ci interessava del monastero: il Vermut, con grafia alla piemontese anziché quella più in voga francese di vermouth.

È noto che per la sua produzione occorre un vino, da fortificare e aromatizzare, da uve a bacca bianca (è consentito l’utilizzo di vino da uve a bacca rossa sebbene in quello originale del Piemonte era la bianca che si adoperava, principalmente da vitigno Moscato), che in questo caso è il Grechetto.

Elemento imprescindibile e caratterizzante è la presenza dell’assenzio che in lingua germanica è chiamato proprio Wermut. La commercializzazione di questo vino liquoroso, che entra nella composizione di molti cocktail famosi quali il Martini, il Manhattan, il Negroni, l’Americano, il Milano-Torino, l’abbiamo grazie a Antonio Benedetto Carpano di Torino dal 1786. In realtà ha origini molto più antiche, sotto forma di altre ricette, alcune risalenti al medioevo e dovute, non lo dobbiamo dimenticare, proprio alla creazione dei monaci, grazie alla maestria nell’utilizzo di erbe e spezie.

Se poi aggiungiamo che Piemonte e Vermut sono legate storicamente, e che la Comunità monastica di Bose è di Biella, possiamo affermare che i frati di San Masseo giochino in casa.

Ci resta solo da controllare se questo vantaggio corrisponda al prodotto che abbiamo di fronte.

Vermut di San Masseo

Per cominciare notiamo il grado alcolico espresso in etichetta: 18% ci fornisce una indicazione importante sulla struttura e il grado di dolcezza. Con questo tenore etilico ci attendiamo un prodotto più secco (che tra l’altro rientra tra quelli da noi preferiti). Nella composizione abbiamo le irrinunciabili aromatiche tradizionali di assenzio gentile (artemisia pontica), di assenzio maggiore (artemisia absinthium) dei quali uno dei due è d’obbligo, e del facoltativo ginepro comune, a cui si aggiungono le botaniche tipiche del Mediterraneo: timo, salvia, melissa, maggiorana.

La fragranza e la freschezza di questo vermut impressiona subito l’olfatto. Oltre alle note di assenzio e delle erbe mediterranee che, in quanto addizionate, attendevamo, arriva un rabarbaro dolce da caramella dura, e un chinino fresco; sembra quasi di odorare una bevanda gassata a base di cola nella versione al lime fortificata dal grado alcolico, che rimane tuttavia misurato. Infine un inaspettato sentore di marron glacé. L’alcol non aggredisce neppure in gustativa, con ritorni di caramelle alle erbe, in un lungo finale amaricante, di una dissetante bibita al tamarindo. Ottima la beva che appaga già nella sua versione in purezza: nulla vieta di impiegarlo con successo nella miscelazione ma, per essere sinceri, ci è piaciuto molto già così.

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Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.

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