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STORIEDABERE

FIANO DI MEZZANOTTE – UN RACCONTO DI PINO PERRONE

La rubrica “Storiedabere”,  che dà spazio alla fantasia ed ai sogni, e talvolta trae ispirazione da episodi di vita vissuta, sempre in qualche modo legati all’enogastronomia, si arricchisce di  un altro racconto di Pino Perrone. Buona lettura.

 

dedicato a Luca Matarazzo e Carlo Bertilaccio

 

“Va tutto bene?”

Dentro l’auto con lo zuccotto in testa ho trasalito. Capo chino sul cellulare controllavo il file scaricato. Riportava la lista completa dei libri strenna Olivetti, illustrati, essenzialmente opere di narrativa. Belle edizioni in quarta e rilegati, fuori commercio. Da un’idea di Giorgio Soavi, che si concretizza nel 1972, l’anno in cui è stato pubblicato il primo volume, ora raro. “Le avventure di Pinocchio” di Collodi, corredato da una ventina di tavole di Roland Topor, l’artista polacco. Da quel momento in poi, l’Olivetti propone all’inizio due, poi un libro l’anno, con disegni di artisti di primo piano e scelta delle opere allo stesso livello, che si prestino ad essere illustrate.

Un sussulto c’era già stato poco prima, scoprendo volumi di cui non ero a conoscenza. Erano in realtà pochi e i più recenti, targati Telecom, a seguito dell’acquisizione avvenuta nel 1999 da parte di Roberto Colaninno. In conclusione avrei dovuto cercarli, oltre agli altri che sapevo mancanti, poiché la serie molto mi garbava (usando il termine toscano che a Collodi sarebbe piaciuto) e desideravo completarla.

La giornata era stata proficua, avverto sempre una sensazione simile quando riesco a completare uno scritto, come del resto sta accadendo in questo istante. Avevo terminato un articolo sulle anteprime del Montepulciano d’Abruzzo, dove avevo giocato con un film di fantascienza, e inviato al collega Maestro per visionare e in attesa delle sue integrazioni. Dopocena avevo lavato i piatti dell’intero nucleo famigliare, impegno che mi compete, e cercato un film non ancora visto. Poi era arrivato il messaggio.

Messo in pausa il video, ero uscito di casa. Del resto non mi stava piacendo un granché, liberamente tratto da A sangue freddo di Truman Capote, il suo ultimo, più noto e celebrato romanzo. Accade con molta frequenza, del resto letteratura e cinema sono forme espressive differenti, e la cosa non mi sorprende più da tempo, tuttavia pensavo che la pellicola mi regalasse emozioni maggiori. Invece, neppure la magistrale interpretazione di Philip Seymour Hoffman, del quale piansi la morte, e che gli valse l’Academy Award per miglior attore protagonista, era riuscita a risollevare l’opera cinematografica, almeno fino a quell’istante.

Ad ogni modo il figlio, quello non patentato, aveva bisogno del padre per rientrare a casa. Fa parte di un gruppo che organizza concerti di musica jazz, con lo scopo di portare questo genere a coetanei in periferia, in un quartiere dall’altra parte della Capitale rispetto a dove stanziamo.

I mezzi in notturna, dal capolinea metro di Laurentina, passano di rado e spesso saltano la corsa, oltretutto pioveva. Ero comunque ancora vestito nonostante fosse mezzanotte e venti, altre volte ho dovuto farlo. Probabilmente non avevo calcolato correttamente i tempi, anzi di certo ero in netto anticipo, diversamente non sarebbe successo.

Tirai giù il finestrino.

“Sì, tutto a posto”.

“Cosa ci fa qui?”

“Attendo mio figlio”, rispondo.

Seppur non richiesto, anticipo le domande successive, non lesinando informazioni. Seppero come si chiamava, quanti anni aveva, dove si trovava, cosa era andato a farci, in che cosa si stava laureando il secondogenito, quale strumento suonasse, e infine aggiunsi pure che fosse senza patente. Forse quest’ultima notizia alimentò dei sospetti poiché uno dei due mi chiese la ragione. Avevo compreso le sue origini natie, e risposi forzando la lingua con un accento a lui familiare, senza volontà di scimmiottare, solo per empatia.

“Mah, forse tiene nu poco de paura”.

“E così il genitore è costretto a uscire di casa”. Aveva ragione, non era una novità del resto. “Accade spesso?”

“Non più di due volte al mese”.

Pensavo che fosse sufficiente per concludere il controllo, invece mi chiese se avevo un documento con me, e non di favorirne uno. Sbagliavano soggetto: tranne che per buttare l’immondizia o quando vado a correre, non esco mai senza, anche in casi del genere, appena dieci minuti di strada per prelevare il figlio e tornare all’asciutto, e improvvisamente realizzo che la mia normalità non è affatto un obbligo da assolvere.

Gli porgo la carta di identità in formato di tessera plastificata e mentre la prende mi pone una domanda che risulterà fatidica.

“Lei lavora?”

Una voluta teatrale pausa e poi dico: “Sono un educatore sui distillati, un sommelier specializzatosi sui whisky”

Coi sussulti accorcio le distanze, due a uno, perché stavolta è il loro. Poi maledico il mio palese narcisismo. Rifletto spesso a posteriori, quando oramai è tardi per ripensarci, che un giorno o l’altro passerò delle noie se non metto a freno la lingua, poiché vedendo che continuava a digitare i miei dati su un terminale, aggiunsi: “Anche piuttosto noto nel settore. Fate prima se andate su Google, ed esce tutto”. Adesso mi portano in Centrale, penso, invece chi mi pose la domanda sorride. La parola whisky e distillati non lo interessa tanto, sommelier invece sì, anche a chi gli sta affianco, l’autista della vettura che mi domanda:

“Qual è stato il vino migliore quest’anno?”

Quando ho di fronte una divisa, per colloquiarci ricerco il miglior linguaggio che dispongo, per far colpo e in parte per disorientare.

“Questione a cui è difficile rispondere, forse da non porsi, poiché siamo nel campo dell’eterogeneo e qualunque etichetta nominassi si tratterebbe pur sempre di un parere personale. Le guide comunque stilano delle classifiche consultabili. Nello specifico appartengo a un gruppo di degustatori che quando si cimentano in tal senso, lo fanno con vino proveniente da un solo vitigno o da una zona. Voi siete originari della Campania vero?”

“Sì”

“Beh, in questa regione nascono degli ottimi vini, soprattutto bianchi, ma anche rossi. Il Fiano d’Avellino, ad esempio, lo ritengo essere uno dei migliori vini bianchi d’Italia.”

“La Falanghina è in calo?” chiese nuovamente l’autista che dei due era il più anziano.

“Alcune sono ottime, dipende dalle zone di provenienza, ma in generale il Fiano è superiore. È un parere personale vien da sé, ma suffragato da persone molto più preparate di me. E subito dopo c’è il Greco di Tufo, ma ripeto è il mio palato che parla.” Poi chiesi al più giovane, quello che mi aveva rivolto la parola per primo. “Di dove è lei esattamente?”

“Caserta. Mi sono avvicinato al vino da un po’ di tempo.”

“Per l’Associazione Italiana Sommelier, l’anno passato ho tenuto un seminario sulla distillazione, grazie al referente sui corsi della Campania” e aggiunsi il suo nome.

“E un vino della Campania che non sia troppo costoso da comprare, sotto i 20 euro?”

Il tentativo di dirottare il discorso sulle acquaviti era mestamente fallito, inoltre pioveva, era tardi, ero stanco, volevo terminare di vedere quel film che non mi stava piacendo, mio figlio non arrivava, e la carta d’identità non mi era stata ancora restituita, insomma non me ne venne nessuno. “Potete chiedere a lui. È una persona molto preparata, non solo sui vini campani, pensate che con tutta probabilità è il più grande conoscitore dell’Albana di Romagna, ne è stato anche l’ambasciatore in Italia” e gli chiesi se lo conoscessero, ma mi risposero di no. “Beh, credo che non avrete difficoltà a trovarlo.”

“Del resto la Campania è la regione più importante d’Italia nel vino”, se ne uscì l’autista.

“È una regione importantissima ma non si può affermare sia la migliore.”

“Allora a lei i vini di quale regione piacciono?”

“Di tutte, non è questo il discorso. Ho una predilezione per quelli piemontesi e sardi, ma gusti personali a parte, certamente il Piemonte, ma anche altre regioni come la Toscana ad esempio, se fossi costretto a redigere una classifica li inserirei prima della Campania, allo stato attuale ovviamente.”

“Il Piemonte, sul serio?”

“Signori, uno dei vitigni riconosciuti a livello mondiale da podio, cresce con ottimi risultati solo lì, a parte la Valtellina e la Valle d’Aosta (ed una piccolissima rappresentanza in Sardegna) ed è il Nebbiolo. E in questa regione c’è tanto d’altro. Sì a mio parere è quella migliore d’Italia”. Non riuscii a sapere se avevo ferito l’orgoglio campano perché il discorso variò ma di poco.

“Vede, mi sono costruito una cantinetta” disse il giovane mostrando una foto contenuta nella galleria del cellulare.

La volante mi aveva affiancato, ero costretto a sporgermi dal finestrino per osservare il suo apparecchio telefonico, e stavo quasi per scendere e utilizzare il poco spazio a disposizione fra le due auto per guardare meglio sfidando la pioggia, quando mi ricordai che non era permesso, e di quella volta che provai a farlo in Scozia, alla periferia di Falkirk, nota per la distilleria di Rosebank, tornando da Edinburgh, e del poliziotto che mi invitava a rientrare in auto e contemporaneamente poneva la mano destra alla fondina. A distanza sono comunque riuscito a vedere l’immagine di una cucina e alla destra una bottigliera di legno fissata al muro con circa quaranta spazi, tutti occupati da bottiglie, il carabiniere si stava dando da fare!

“Qual è il miglior modo per conservare le bottiglie?”

Gli spiegai cosa occorreva fare e dove, e cosa non andava fatto, e alla fine aggiunsi: “E comunque, pur osservando tutte le regole, c’è sempre l’inconveniente della molecola del sentore di tappo, dal nome tricloroanisolo” non gli risparmiai il nome chimico e, nel tentativo di riprendermi la rivincita sui distillati, cotanto da loro ignorati, aggiunsi “incidenza ridotta a minimi termini per chi preserva bottiglie di whisky, ad esempio. Infatti i collezionisti oramai si rivolgono più ai distillati che al vino, non a caso la bottiglia più cara al mondo battuta in un’asta è proprio un whisky: due milioni e mezzo di euro”.

Entrambi sgranarono gli occhi, due pari, e come per magia, e aggiungo finalmente, arriva Thomas, che vedendo la situazione sorride uscendosene con una frase delle sue: “Ti hanno riconosciuto?” “No, mi hanno fermato”, gli risposi. Ma in realtà, una volta accadde proprio questo, che durante un controllo un appuntato mi fermò con la paletta, e dopo avermi chiamato per nome mi lasciò andare. Era un cliente del negozio che al tempo avevo e con la divisa non l’avevo riconosciuto, mentre lui, più fisionomista di me, sì e senza il mio abituale camice bianco.

“Bene, il figliolo è arrivato, posso andare?” Mi resero la carta d’identità e ci salutammo cordialmente. “Mi raccomando, se vi occorrono informazioni, contattate quel nome”.

Nel breve viaggio di ritorno, mio figlio volle sapere tutto l’accaduto, infine mi disse:

“Vedi, questa è una storia da raccontare, non come fai con tutte quelle stupidaggini che scrivi…”.

Così feci, ma non prima d’aver finito il film, che non migliorò, e, con tutto quel parlare di vino, dopo aver bevuto un bicchierino di Laphroaig dieci anni a grado pieno. Slàinte!

 

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Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.

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