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STORIEDABERE

C’era una volta…HUSET, ovvero musica e birra da (s)ballo

La rubrica “Storiedabere”,  che dà spazio alla fantasia ed ai sogni, sempre in qualche modo legati all’enogastronomia, si arricchisce di  un racconto di Carlo Bertilaccio. Un omaggio al reggae e al film ONE LOVE in sala in questi giorni. Buona lettura.

Diretta…

Quando infilo l’ingresso della Huset (casa), quattro o cinque birre ballano già da un po’ nel mio stomaco (bionde, scure, malto semplice o doppio) e mi fanno camminare su una piccola, eterea nuvola del tutto personale.

Tra la gente ricordo e riconosco un po’ a stento, ma con molta allegria, i miei amici danesi. Sorridono e ogni tanto mi lanciano qualche commento in inglese, unico nostro canale di comunicazione verbale.

Differita…

La Huset è una casa di quattro piani, “alternativa e giovane”, quasi proletaria per un paese socialdemocratico come la Danimarca, un ritrovo “socialcultural politicomusicale” di un campione significativo di giovani europei variamente colorati e sbronzi in modo altrettanto vario e pittoresco.

Al primo piano c’è un ristorante che è più che altro una mensa, al secondo un cinema d’essai-cineclub, al terzo uno spazio politico e al quarto, finalmente, un localino con scarse possibilità di uscita dove si beve molto, si ascolta musica “live” e si balla: ma soprattutto ci si eccita.

Una piccola polveriera di sensi di ogni nazione che esplode appena il complesso attacca il primo pezzo e continua così, con una reazione a catena sino a tarda notte, sino a consumare tutta la sensualità propria e altrui.

Diretta…

Arranchiamo per le quattro (otto?) rampe di gradini scricchiolanti e arriviamo all’ingresso del localino, una specie di ufficio postale dove ti timbrano il polso con il visto di entrata prima di dirti quant’è: fuori i soldi e dentro, piccola bolgia di fumo, luci e colori sul verde, sorrisi biondi incorniciati da capelli azzurri e occhi bianchi..oops!

Scusate, sorrisi bianchi incorniciati da capelli biondi e occhi azzurri, ma anche capelli neri, crespi su abbronzature un po’ troppo belle per non essere lì sulla pelle da sempre.

Copenaghen è un centro del mondo e il mondo vi è rappresentato adeguatamente. Stasera poi, mentre la porter mi fa accennare qualche passo di danza sulla nuvola, stasera c’è un complesso di reggae-calypso da svenire! O svenarsi col sorriso sulle labbra. Per ora però sulle labbra mi ritrovo un’altra birra, dono di Hip, amico poco loquace e molto intelligente: con lui sono al sicuro qui.

La band è svedese, il chitarrista pure, il bassista danese. Poi ci sono i neri, voce e strumenti da reggae, più un inglese alle tastiere.

Quando entrano possono sembrare indifferentemente il gruppo reggae della Nato, un gruppo di occasionali compagni di viaggio o quello che sono, scatenato gruppo di calypso che attacca a suonare senza mezzi termini un ritmo mozzafiato che ti rimescola sangue, muscoli e ossa (le idee sono già frullate dal cocktail di birre).

Se non fossimo seduti, staremmo già ondeggiando sulla pedana insieme a loro, come alcune giovani (troppo) levigate fanciulle con pelle lattea e occhi celesti.

Incredibile, siamo ancora all’inizio e già i miei sensi scappano fuori della camicia, e fatico a tenerli dentro.

Mi alzo, libero una parte delle mie scintille di emozione e raggiungo il banco del bar.

Dietro c’è una barwoman di cui mi innamoro perdutamente al primo sguardo, le chiedo una mezza dozzina di birre per i miei amici e a che ora va a casa. Lei per risposta mi sorride, strappando le sei birre sotto il mio grosso naso, facile bersaglio per i sei tappi. Forse non conosce l’inglese. Torno indietro, infilandomi con tre birre per mano in mezzo al dance feeling, denso e caliente, e sfiorando i corpi invasi dal ritmo. Sono perfetti! La perfezione della danza in musica febbrile e sincopata.

I volti dei cantanti luccicano di sudore e lanciano abbaglianti riflessi bianchi di sorrisi. Nuoto sulla mia nuvoletta, al limite della pedana, tra sensazioni elettriche in brevi scariche e, dopo una vita di sofferenze erotiche, arrivo al tavolo: gli amici danesi non dicono nulla, sorridono.

Ho fatto la cosa giusta, penso, mentre porgo le birre. E penso male: solo parecchie birre più tardi mi rendo conto di aver innescato un meccanismo spietato di giri di birra che metterebbe a dura prova un danese qualsiasi, figuriamoci un italiano.

Anyway, mi siedo felice a ciucciare birra dal biberon di vetro che recita “Carlsberg” sull’etichetta, e un piccolo esercito di cellule nervose che mi appartengono si mette in movimento al lento e sincopato tempo di reggae, sino a muovere il mio corpo da “ELEPHANT”, come la birra, e cioè pesante, forte, e perché no? Frizzante, brillante.

Mi guardo intorno e vedo un accompagnatore della band, nero luccicante pure lui, che fa impazzire davanti alla pedana una giovane e sfrenata ballerina.

La stringe, si stacca, la provoca e l’accarezza con l’arte sapiente ed esperta di colui che non ha fretta e sa come vanno queste cose. Ci sta bene una risata quando lo faccio notare a Hip, fra le nuvole anche lui.

A un certo punto è ora di andare a cambiare l’acqua…vicino al tavolo c’è una porta su cui manca soltanto la scritta WC… è a un passo dalla mia sedia. Mi ci infilo e mi ritrovo in una specie di festicciola base di fumo, alcool e sesso leggero, con gentili ospiti gli amici del complesso. Credo sia il camerino, vallo a sapere, c’è anche una che si spoglia, non male; mi accolgono con gioia sincera, ma io sono spinto da esigenze di altra natura e con un gesto molto signorile, chiaramente dettato della birra declino l’invito a restare.

Con un certo rammarico e sempre a passo di danza, mi decido a riattraversare la bolgia, la pedana e il locale per raggiungere il vero bagno, mi sbrigo a scaricare una parte della birra, la più urgente, e torno dalla fanciulla, la sorridente barwoman, per ordinarle un’altra “ELEPHANT”, e insistere sull’ora in cui va a casa, sono solo, entusiasta di lei, non ho un posto dove andare e ho molto tempo da dedicare all’approfondimento della nostra conoscenza.

Stavolta il tappo è uno solo e mi chiede pure se sono greco. Io dico no, ma è come se lo fossi, se per lei va bene così. Una faccia, una razza, sono italiano.

Ride, a casa non ci va, non con me almeno,
però un ballo non me lo nega.

È il reggae più sciolto che io abbia mai ballato, e per giunta con una birra in mano.

Le gambe non sembrano mie, vanno proprio bene e così mi lascio affondare in un mare molto profondo di note, sudore, sguardi significativi (miei) e ammirazione per la barwoman che ci dà dentro con piacere e nemmeno si sottrae al mio disinvolto abbraccio quando il reggae si trasforma in lento. Una mano sola, penso, ma potrebbe bastare. Chiudo gli occhi nella luce soffusa, e un attimo dopo li riapro giusto in tempo per vedere la mia girl rapita dell’accompagnatore della band che stasera di donne ha fatto il pieno.

Non mi resta che tornare al tavolo a passo di rimpianto per quelle lentiggini così carine e il bel nasino diritto della mia ex girl.

Hip sembra un cherubino biondo fra le nuvole, gli manca l’arpa ma ha un sorriso stupendo, splendente come una sera nordica d’estate.

Ci finiamo le rispettive birre mentre il complesso ringhia gli ultimi pezzi e la gente è fatta all’ennesima potenza.

Tutte così facili le donne qui? gli chiedo e lui quasi senza aprir bocca mi dice: anche di più.

Rifletto un attimo sul timbro del polso, pieno di promesse, e sulla marea di bottiglie vuote che nascondono persino i contorni del tavolo. Poi gli accenno se vogliamo andare. Va bene. Ci alziamo e, dopo un’eternità di risate sul fatto che una volta fece un viaggio molto conveniente in Polonia con un gruppo organizzato e solo lì si rese conto che erano ultrasessantenni per cui non s’era divertito granché, siamo fuori nell’aria fredda e tersa che precede l’alba.

Hip è molto simpatico con i suoi viaggi i suoi mille lavori, ed è un piacere spendere con lui gli ultimi spiccioli della notte prima del sonno.

Passeggiamo un po’ lì intorno e alla fine arriviamo alla macchina. Resta un po’ perplesso quando gli dico che torno indietro ad aspettare la barwoman, poi mi augura la buonanotte con tutto il calore di cui può disporre un danese, arrivederci a domani.

Fa fresco, la birra ancora si agita nelle viscere e mi chiedo se in strada potrò chiederne ancora una a quegli occhi azzurri, ma in fondo non importa. Magari chiederò un passaggio o l’accompagnerò insieme al suo boyfriend, amo tutti questa notte e voglio solo farlo capire.

Sono arrivato, gruppi di ragazzi tornano a casa: c’è anche lei che va via da sola con passo svelto. La raggiungo e… mi dai una “ELEPHANT”, please? e stavolta non ha niente da stapparmi sotto il naso.

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Carlo Bertilaccio vive a Roma ed è attualmente curatore della rubrica "di...stillati" per la testata giornalistica Vinodabere (www.vinodabere.it). Collabora anche con Luciano Pignataro (www.lucianopignataro.it) e ha collaborato per le edizioni 2017/2018 con la guida "I vini d'Italia" de l'Espresso. Ha collaborato per le edizioni 2015-2016 con la guida Slow Wine, e con la guida "Vini buoni d'Italia" dall'edizione 2010 fino all'edizione 2013. È autore di diversi articoli su distillati e vini su Scatti di Gusto (www.scattidigusto.it). Ha infine scritto diversi libri per Palombi editore su cocktails e altri argomenti, e prodotto inoltre quattro dischi di giovani talenti italiani nonché le canzoni per un musical su Marilyn Monroe, recentemente premiato al teatro Sistina di Roma. Giudice per Spirits Selection by Concours Mondial de Bruxelles. Giudice di Radici del Sud. Giudice di Grenaches du Monde.

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