La data fatidica è quella del 2007. È stato allora che la famiglia Faiveley, in sella dal 1825, ha deciso – lo hanno deciso François Faiveley e suo figlio,che reggono la barra di comando – la svolta.
Non una rivoluzione, beninteso. Ma una evoluzione, per così dire, verso la contemporaneità. Anello di congiunzione – e al tempo stesso e per la stessa ragione “unicum” a suo modo – tra le due tipologie produttive della Borgogna profonda, il “négociant” alla Jadot o Bouchard, poca o punto vigna e grandi acquisti, e il produttore artigiano interamente récoltant, vigna poca ma tutta propria e zero acquisti, e forte di una superficie vitata decisamente di altra categoria rispetto a questi ultimi (57 ettari distribuiti su tutti o quasi i cru che fanno la leggenda e lo splendore dell’area, e in alcuni casi con posizioni predominanti o addirittura di monopolio), fin lì Faiveley aveva avuto come missione quella di produrre vini, nella parte apicale della sua gamma, nobili nel senso più tradizionale del mood borgognotto: dunque eleganti, territoriali, ma tesi a una serbevolezza e a un’evolutività spalmate il più a lungo possibile nel tempo.
Vini, insomma, i top, per lo più rétard. Splendidi dopo lustri, ma da attendere con la necessaria pazienza. L’idea, quella che ha cambiato le cose, è stata di provare a farne di altrettanto fini e identitari, sempre totalmente e intimamente legati alla capillare scansione in sottozone delle mitiche Cote borgognotte, ma godibili anche “just in time”, allo sbarco sul mercato o in tempi decisamente più ragionevoli a partire da allora.
E per avviare il nuovo corso, ci si è giocoforza affidati a un uomo nuovo: un giovane plenipotenziario, autentico chef de cave al modo della Champagne, con esperienze professionali e di crescita fatte sia in Borgogna che a Bordeaux, e con una visione a 360 gradi. Jerome Flous ha in mano, da allora, tutto il processo, dalla vigna alla cave. Un uomo solo al comando, onde evitare conflitti di percorso e competenze. E ha iniziato, senza fretta, senza forzature, ma subito con palese evidenza, a rimodellare una gamma produttiva assortita su ben 12 grand cru e 25 premier cru diversi. La più articolata, a quei livelli, che ci sia.
Da tener presente che, di tutto il plafond della casa, il 90% è prodotto con uve proprie, e solo il 10% (di cui peraltro fa la parte del leone la quota destinata al vino “entry level”, il Bourgogne Rouge, per il quale la quota “comprata” è al 60%) è figlio di partite acquisite.
Per lavorare al top, Flous può contare su due cantine, una a Mercurey e l’altra a Nuits St. Georges, su un team di 70-80 persone al lavoro nei servizi tecnici, con laboratorio e tutti gli strumenti necessari già in casa, e una fantastica organizzazione in vigna, che prevede anche qui una formula “uno a uno”, con una persona direttamente responsabile di ciascuna micro parcella e della qualità dell’uva raccoltavi, con annesso sistema premiale o di penalità che di fatto ne decide la (ottima, per chi ben lavora) retribuzione.
A ciò si aggiunga una sensibilità, anche questa contemporanea, al valore della sostenibilità, assicurato e comprovato da certificazioni dedicate e dall’adesione a protocolli estremamente accurati.
Ed eccoci ai vini, presentati in un defilé milanese ambientato nello scenario smart del Ceresio 7, con le sue terrazze (frequentatissime) e le sue piscine a raso e a picco sulla “nuova” Milano. Vernice sotto l’egida della famiglia Sagna, che importa e distribuisce praticamente da sempre Faiveley in Italia.
Cuore della proposta l’annata 2016, quella della famosa gelata di fine aprile, partita malissimo dunque e ritardata poi anche da una primavera complessivamente ingrata, ma riscattata da un giugno eccezionale e salvata alla grande da una prosecuzione di estate che ha assorbito tutto il solare settembre della vendemmia, forzatamente tardiva viste le premesse climatiche, iniziata a pochissimi giorni dalla fine del mese e segnata, per la quantità (ovviamente ridotta) prodotta, da una buonissima maturità fenolica colta nel finale di partita.
Si inizia dunque dal Bourgogne 2016, naso inzialmente un po’ fermo, ma poi fruttato e piacevole, bocca accogliente , tannino appena avvertibile, allevato nelle botti svuotate dai gran cru, dove ha il doppio compito di succhiare finezza e salvare i legni tenendoli pieni. Entry level, si diceva più su: ma occasione super per chi non abbia mai pescato in Borgogna, visto che costa appena 15 euro al pubblico, e se ne fanno da da 100 a 150 mila bottiglie, secondo annata.
Un bel gradino più su, ovviamente, il Nuits St Georges Premier Cru 2016 Les Porets, radici e vigna al sud della zona, penalizzatissima dalla gelata di cui sopra, con il 40% del prodotto perduto. Vigne di due età (1960 e 2005), argilla e ciottoli in terra, naso ovviamente più eloquente, dialettica tra grande morbidezza di frutto, elegante e rotondo, ma corretto da buona sapidità, e “fili di” legno nella tessitura, guadagnata con la sosta in legni nuovi al 40% anche oltre i due anni, senza travasi, ma col vino fermo sulle fecce nobili. Costa, in Italia, 80 euro circa.
Il vero primo salto, però, lo regala lo Gevrey Chambertin Premier Cru Les Cazetiers 2016, su cui Faiveley punta forte, tanto da aver raddoppiato i due ettari di proprietà originaria, toccando i 4 e rotti sui 10 dell’intero cru. Si vinificano qui separatamente le parcelle vecchie (eleganza super) e le nuove (più potenza). Ed è un gran bel blend. Naso ridotto all’inizio (note di fiammifero spento, dice Flous), poi piccoli frutti, mirtillo e suadenza di panna, tipicità e finezza, dolcezza discreta di fragole nel finale, ben consolidata però da una trama tannica fitta e levigata insieme. Costa 110 euro, un prezzo – si sa – non per tutti, ma ben possibile intanto per uno sharing tra appassionati, e davvero (visti i costi folli che girano) un’occasione per un approccio altissimo alla tipologia, visto che doppia in scioltezza e di un bel pezzetto il capo dell’eccellenza e dei 90 e passa centesimi.
È un Monopole il vino successivo: Corton Clos de Corton Faiveley Grand Cru 2016, vigna che inalbera orgogliosa il nome dell’azienda e lo porterebbe per sempre, anche in caso (ovviamente oggi impensabile) di vendita. In tutto 2,8 ettari, e stimmate diverse, come è logico aspettarsi dal cambio di terroir. Succoso ma tosto, giovane davvero, more oltre al mirtillo, e note di cherise di sfondo; più caldo ed energico, e insieme più serrato, sapido e “scuro-liscio” di grafite. Costa 220 euro, è tirato in 7500 pezzi, è il vino che va atteso e corteggiato almeno un po’ di più tra i ’16 presentati.
Tipicità e grazia, invece, quella del Mazis-Chambertin Grand Cru 2016, nord della zona, vigne piantate in più riprese a partire dal 1930 fino al 1986 (la fetta più importante per estensione), eleganza assoluta e vibrazione nella tessitura che, setosa e profumata, “tira” lunga e ampia, ma non scalda, e regala a corredo del frutto nuance di violetta e di cuoio, e anche una traccia fumé, che ne variegano il “colore”, ma mai lo sovrastano. Costa quanto il precedente (220), sono 3300 le bottiglie prodotte, e al momento dell’assaggio (oggi, insomma) è decisamente, per chi scrive, un calice top level.
Dal passato (recente) e dalla parabola di Jerome Flous arrivano quindi il Corton Monopole 2009 (annata importante, vino di grande compostezza, fascino e futuro in cammino, con piccole ritrosie residue e la nota materica più presente in assoluto, nella texture, tra i vini presentati) e il Gevrey Les Cazetiers 2007, il primo firmato dal giovane, amabile quanto abile, chef de cave, vino eloquente e fotografico nella sua anima dialettica tra serenità profumata, appena puntuta di gomiti e ginocchi, da Chambertin di annata magra, dunque dall’aria di perenne adolescente, “grandi ossa e poca carne”, per cantarla con Lucio Dalla, ma energico e nervosamente “sympa” come il Marco della celebre canzone. Incisivo e sapido, è un bellissimo biglietto di presentazione per chi lo ha fatto.
P.S.: a tavola, a degustazione chiusa, in ordine sparso e senza formalità, spazio con le pietanze anche per un Mercurey Blanc 2015 notevole davvero per la categoria, un altro Gevrey, il Des Issarts 2016, e due colpi alla “mi piace vincere facile”: il Clos de Vougeot cioè nelle due versioni 2016 e 2009, sapida e scorrevole quanto soda la prima, enorme per ossatura e trama portante la seconda, ma ancora leggermente attardata nell’imbocco della strada definitiva sul coté aromatico. Il tutto a ribadire in complesso, fossero servite altre prove, che in casa Faiveley il far tanto (e tante etichette) va gloriosamente a braccetto con il far bene. Anzi, benissimo.
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