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Alto Adige – Santa Maddalena: Schiava, Lagrein e non solo…

Da molto tempo desideravo conoscere di persona i territori e i vignaioli che danno vita a una delle più tradizionali denominazioni dell’Alto Adige, il Santa Maddalena. Perciò non mi sono fatto sfuggire l’occasione di ritagliare qualche ora, durante l’ultima edizione delle Giornate del Pinot Nero, che si è svolta a fine maggio ad Egna e Montagna, per effettuare qualche visita.

La zona classica da cui nasce il Santa Maddalena, un uvaggio di Schiava in prevalenza (minimo 85%) con piccolo saldo di Lagrein (che di solito oscilla tra il 5 e il 10%), è situata all’immediata periferia di Bolzano, in direzione nordest, all’inizio della via che dalla Valle d’Isarco conduce fino al Brennero. Si tratta di un vino piuttosto peculiare che ha vissuto per un lungo periodo, dominato da stili più potenti e impattanti, in una sorta di cono d’ombra, anche per “colpa” del successo dei grandi vini bianchi altoatesini.

Fino a poche decine di anni fa, la Schiava (coltivata per lo più col sistema della pergola trentina e suddivisa in vari cloni: grossa, grigia e piccola o gentile) rappresentava quasi il 70% del vigneto della provincia di Bolzano, mentre oggi, dopo gli espianti a favore dei vitigni internazionali bianchi e rossi, non arriva al 20%. Col risultato, però, di aver resistito soprattutto nelle zone più vocate, come la collina di Santa Maddalena e Caldaro, dove si fa un altro ottimo vino da uve Schiava.

Negli ultimi tempi, complice un radicale cambiamento stilistico che ha coinvolto produttori e appassionati, sta tornando d’attualità il modello del rosso dalla silhouette snella, beverino, dal frutto croccante in evidenza, con tannini docili e seducenti, adattissimo alla tavola, fedele compagno di sbicchierate spensierate, senza però sacrificare complessità e sfumature: in pratica il ritratto dell’autentico Santa Maddalena.

I vignaioli di Santa Maddalena hanno fondato nel 1923, primi in Italia, un Consorzio. Dal 1978, data di nascita della DOC, si chiama “Consorzio dei vignaioli per la tutela della produzione del vino Santa Maddalena”. A parte la Cantina di Bolzano e la Cantina Convento Muri Gries, nella zona classica (che comprende le località di Santa Giustina, Costa, San Pietro e Rencio) le produzioni arrivano tutte da aziende familiari e vignaioli indipendenti. Molte altre cantine sociali dell’Alto Adige hanno un Santa Maddalena tra le proprie referenze, ma si tratta di realtà che hanno sede operativa altrove. Le bottiglie prodotte annualmente sono due milioni, da un vigneto di circa duecento ettari (di cui la metà iscritta alla DOC Santa Maddalena “Classico”).

 

I vigneti sono per la maggior parte esposti verso Sud, Sud-Est e Sud-Ovest su un terreno la cui pendenza varia tra il 30 e il 60%. Particolari correnti d’aria accarezzano le vigne per buona parte dell’anno, le ore di luce sono 1.750, i giorni di pioggia 80 e l’umidità media è del 59,3%.

Questo report è dedicato in particolare a tre produttori, racchiusi in un fazzoletto di pochi km a  Cardano (Santa Giustina,) e non si limita a esaminare il Santa Maddalena, ma dà il giusto spazio anche agli altri vini bianchi e rossi, tra cui non mancano diverse “chicche”.

 

Josephus Mayr – Erbhof Unterganzner

“Il Santa Maddalena è un vino a 360°. C’è chi ama berlo durante i pasti e chi invece lo sceglie per un brindisi in compagnia”, afferma Josephus Mayr, presidente del Consorzio. Mayr può essere considerato il “decano” della denominazione e uno dei più rappresentativi produttori di tutta la regione, avendo fondato nel 1999 e presieduto fino a poco tempo fa l’Associazione Vignaioli dell’Alto Adige. Nel tempo libero, si diverte a suonare la batteria nella banda del paese.

Il mio percorso parte proprio da lui. Da oltre trent’anni ha scelto di uscire in autonomia con il suo vino e con il suo olio, da ulivi coltivati in una delle zone più alte e fredde della Penisola; qui si producono anche noci e fichi. Il maso Unterganzner, sulla riva sinistra dell’Isarco, appartiene alla famiglia Mayr dal 1629 e poggia su terreni alluvionali e più in alto di roccia porfirico-morenica (Unterganzner significa infatti “sotto la roccia”). L’azienda conta su nove ettari vitati, con piante dall’età media di trent’anni, di Schiava e Lagrein in prevalenza ma anche di vitigni internazionali (come il Cabernet, introdotto nel 1985) e di recente, per ora solo in via sperimentale, varietà resistenti (Piwi). L’esposizione è in prevalenza a nord-est, l’altezza varia tra i 300 e i 600 metri s.l.m. In vigna non si usa chimica da più di trent’anni, i trattamenti convenzionali per combattere l’oidio sono ridotti al minimo. Ad aiutare Josephus ci sono i figli Josef jr. e Katarina, supportati dalla madre Barbara. Le bottiglie prodotte sono circa 70 mila.

Ma ecco il report dei miei assaggi:

A.A. Chardonnay Platt&Pignat 2018. Profuma di erbe mediche e balsamiche, con un timido e gradevole sottofondo di frutta tropicale. Sorso equilibrato, dall’acidità controllata, versione fresca e d’annata del nobile vitigno bianco, gioca più sull’immediatezza che sulla complessità. Fa il 10% di legno nuovo ed è in bottiglia da poche settimane, come tutti i bianchi 2018.

A.A. Sauvignon Platt&Pignat 2018. Tre vigne, tre vendemmie, tre fermentazioni (con diversi ceppi di lieviti selezionati) e a volte anche tre parcelle che vengono assemblate in seguito. Il divertente gioco che ci propone Josephus è confrontare una bottiglia aperta da otto giorni con un’altra stappata al momento. La prima ha un naso più arioso, segnato dalle tipiche note varietali e da un’insistita traccia balsamica, e un sorso tonico, minerale e profondo; la seconda è per ora in netta riduzione, si colgono lievi tracce di ortica e sambuca, ma al palato ha un sapore più intrigante, bel ritmo, finezza e un’acidità spiccata. L’impressione è che comunque sia un’annata con ampi margini di evoluzione.

A.A. Kerner 2018. Da vigne coltivate a 600 metri s.l.m. Gentili note speziate, affumicate, fiori di campo, erbe aromatiche, cedro, pesca e pera matura. Sorso saporito, la potenza alcolica (15% in etichetta) è bilanciata da una scia acida evidente, che gli dà agilità e una certa eleganza. Nel finale si scioglie con sensazioni di pepe bianco, frutta tropicale, pompelmo, mandarancio. Vino non perfetto ma intrigante.

A.A. Lagrein Kretzer 2018. “Una volta la gran parte di Lagrein era vinificato in rosa: era il vino dell’osteria, serviva a dissetarsi. Oggi non va più di moda, molti preferiscono rossi più strutturati oppure, se hanno sete, la birra”. Il racconto di Josephus aggiunge fascino a un vino che mi ispira subito simpatia. Ha un olfatto che spazia dalla fragola alla terra bagnata e alla frutta secca. In bocca le note dolci si alternano con quelle più acide e salate, con un’integrazione efficace. Vino gastronomico, che nasce in parte da uve raccolte tardivamente (perfino botritizzate!) e che subiscono un breve passaggio in legno. Può crescere ancora.

A.A. Santa Maddalena 2017. Il più semplice dei tre esemplari prodotti in cantina (non ho assaggiato la selezione), profuma di frutta secca ed erbe dell’orto. Buona bevibilità, discreta struttura, spiccata nota di mandorla amara in chiusura. Spensierato.

A.A. Santa Maddalena Classico 2017. Rispetto al vino precedente può vantare una marcia in più, soprattutto in termini di definizione del frutto. Olfatto raffinato, bacche scure, sottobosco, tamarindo, in un contesto floreale, balsamico e leggermente speziato. Sorso sapido, tannino tenero e succoso, molto equilibrato ed elegante, finale lungo e complesso. Può migliorare ancora con l’invecchiamento.

Cuvée Tirolensis Ars Vini 2016. Progetto di sei aziende di piccoli vignaioli, che conferiscono ogni anno le migliori uve rosse per produrre questo vino, ottenuto da un uvaggio di Cabernet Sauvignon, Lagrein, Merlot e Pinot Nero. Naso ricco, mentolato, con tabacco, cuoio e liquirizia; anche al palato tradisce un’impostazione in voga vent’anni fa, con tannini imponenti e confettura di frutta in evidenza. Un vino massiccio. Il progetto include anche un bianco e un metodo classico rosato (Brut Rosé) da Lagrein, degno di nota.

Composition Reif 2016. Taglio bordolese (Cabernet Sauvignon e Franc, Merlot, Petit Verdot) con un 20-25% di Lagrein. Una parte del Cabernet Sauvignon fa appassimento in vigna con taglio del tralcio. La raccolta si effettua in genere a metà novembre, quasi un record per un vitigno come il Merlot. L’olfatto è nitido, balsamico, sa di sottobosco, ribes e confettura di prugna, i toni tostati e vanigliati del legno restano in secondo piano; bocca molto concentrata e avvolgente, in cui spiccano cremosità e dolcezza di frutta matura, buona accelerazione e scodata vegetale che regala più equilibrio e tensione nel finale.

Lamarein 2016. “Questo vino è nato perché mi ero innamorato dell’Amarone di Bertani”, racconta Josephus. Solo i grappoli più piccoli e spargoli di Lagrein, più resistenti alla muffa, vengono fatti appassire in cassette e pigiati di solito poco prima di Natale, a volte anche a gennaio. Quando è necessario si aggiunge altro vino da uve fresche, appena svinato. Finisce la fermentazione in cemento e poi affina per un anno e mezzo in barriques e tonneaux nuovi. Profuma di mirtillo, more, cannella, tabacco, con sfumature di pepe e cioccolato. Sorso potente, ricco e pieno, frutto molto maturo in evidenza, tannini ancora da sciogliere; lunga chiusura su note eteree e di mandorla dolce. Un vinone compatto, di grande struttura, l’esatto contraltare del Santa Maddalena.

Vigneti delle Dolomiti Igt Marie Josephine Passito 2016. È una cuvée di uve bianche fatte appassire fino a marzo e poi pigiate. Dopo aver fermato la fermentazione il vino presenta 9,5% di alcool e più di 200 grammi di zuccheri residui, che però vengono supportati adeguatamente da una bellissima acidità. Affinamento in botte piccola, vino raro e formidabile per pulizia olfattiva e piacevolezza di beva.

Ansitz Waldgries (Christian Plattner)

Un maso a dir poco storico, visto che è stato costruito nel XIII secolo dal barone Roblinus de Waldgries. Dopo aver ospitato un convento di suore, negli anni Trenta del Novecento venne acquistato dalla famiglia Plattner. Il nonno di Christian già allora esportava il suo vino sfuso in Svizzera… Il padre dell’attuale proprietario, Heinrich, fu tra i primi produttori a decidere di imbottigliare per conto proprio, nel 1969, il Santa Maddalena. La tenuta si trova proprio all’inizio della via Santa Giustina, poco distante da quella di Mayr. È splendida e sembra fatta apposta per il turista appassionato di vino: c’è anche un piccolo museo della vita rurale e in cantina sopravvivono botti con più di cent’anni di età.

Oggi l’azienda possiede sette ettari di vigna e acquista uve di Lagrein da un altro ettaro. “Otto anni fa – racconta Christian, che guida Waldgries dalla fine dello scorso millennio – ho espiantato il Cabernet Sauvignon perché voglio dedicare tutti i miei sforzi alle uve storiche del nostro territorio”. Le vecchie pergole di Schiava e Lagrein si trovano nelle immediate vicinanze della tenuta, dove prevale il porfido, mentre le uve bianche arrivano da Appiano, su terreni calcarei. Parte del Lagrein proviene anche dalla vocatissima zona di Gries. Le fermentazioni avvengono con l’ausilio di lieviti selezionati. Si producono 70-75 mila bottiglie annue.

Assieme a lui ho assaggiato i seguenti vini.

A.A. Sauvignon Myra 2017. Un terzo della massa affina in tonneaux. Fine e sottilmente minerale al naso, pompelmo, frutta tropicale e tipico varietale, erbaceo ma non troppo insistito. Anche belle noti dolci di frutta bianca e gialla e di fresche erbe alpine. In bocca è molto puro, ha carattere e una polpa convincente, di buona tensione sapida, dal lungo finale.

A.A. Pinot Bianco Isos 2016.
Metà della massa sta per un anno in tonneaux. Naso ampio, floreale, sassoso, speziato, frutta a polpa bianca (mele e pere). Sorso dolce, pieno e cremoso, illuminato da un bellissimo finale di pesca. Solo, un filo di acidità in meno dell’auspicabile. Buona sapidità.

A.A. Santa Maddalena 2018.
Schiava con un saldo dell’8% di Lagrein. Affinato in acciaio e botte grande, un quinto dell’uva raccolta viene vinificata coi raspi. Profumi molto caratteristici, bacche rosse e carrube, frutta secca e un accenno di spezie dolci, fichi e mirto; vino goloso, succoso e ammandorlato in chiusura.

A.A. Santa Maddalena Antheos 2018.
È un’anteprima di primavera, visto che è stata immessa sul mercato solo poche settimane fa. Vino ricavato dal vecchio taglio della tradizione ripristinato da Christian, che vede la presenza di numerose varietà di Schiava (gentile, grigia e altre sei). Le rese sono più basse rispetto alla versione “annata”. Il 20% delle uve è vinificata coi raspi. Il naso si scurisce, more, pepe e terra bagnata, anche un po’ di calore alcolico; bocca più impettita, c’è materia e anche una lunga persistenza. Tonico e futuribile.

A.A. Santa Maddalena Antheos 2015. Naso più tenero, balsamico, quasi resinoso, con una gentile scia di spezie orientali e un accenno di ciliegie mature. Una Schiava paradigmatica, che non perde nulla in termini di golosità giovanile ma guadagna in complessità e naturalezza al palato. Dinamico, ritmato, di ottima progressione, anche in chiusura i molteplici rimandi fruttati e minerali sono puntuali.



Con la prossima bottiglia si apre il lungo capitolo dedicato al Lagrein, uva in cui Christian crede molto, tanto da dedicargli ben quattro etichette. “Spesso è un vitigno che manca di eleganza, problema che riesco in parte a superare grazie ai terreni sabbiosi. Gli altri accorgimenti sono l’uso dei raspi in vinificazione e l’abbassamento delle rese”.

A.A. Lagrein 2017. Fermenta coi raspi (per il 50% dell’uva), macerazioni lunghe e affinamento in botte grande. Bella speziatura, mirtilli, erbe alpine, terra, lato ematico che ritorna anche al palato, in chiusura dominano ancora le note di bacche scure del bosco. Buona freschezza, tannino meno aggressivo e meno rustico rispetto ai canoni della tipologia.

A.A. Lagrein Riserva 2016.
Vigne più vecchie e rese più basse rispetto alla versione “annata”, il 10% del raccolto è fermentato a grappolo intero, poi si travasa in botte grande. Naso più gentile del precedente, più arioso e floreale. In un secondo momento escono le note più tipiche di frutti scuri, accompagnate da spezie e torrefazione. Anche in bocca ha grande eleganza e ottima persistenza, il tannino è ancora un po’ asciugante e ferroso ma si distenderà con il tempo, in vetro, esaltando le sue doti di energia, succosità e franchezza.

A.A. Lagrein Mirell 2016. Una piccola percentuale dell’uva viene appassita, la quantità varia e dipende dagli esiti della vendemmia. “Ma non voglio fare un Amarone, voglio solo aggiungere un po’ di concentrazione e ottenere maggiore complessità degli aromi”. La vigna ha più di cinquant’anni. Subito arriva alle narici un odore di frutta molto matura (more e ciliegie), poi china, spezie e cioccolato; in bocca è più dolce ma si beve più facilmente, ha un buone equilibrio tra potenza ed eleganza e un bel finale ampio e contrastato con ricordi di arancia amara.

A.A. Lagrein Mirell 2009.
Un po’ ridotto nell’immediato, poi si apre su toni affumicati, di sangue, liquirizia, ciliegie nere, con un’impressione di funghi porcini (o sottobosco?) e un’evidente sottotraccia di spezie e tostatura, ricordo del legno di affinamento. L’età non sembra aver regalato ulteriore complessità ma è un vino assolutamente integro, ancora denso e dalla beva flessuosa e invogliante.

A.A. Lagrein Roblinus de Waldgries 2016.
Anche questa selezione, prodotta solo nelle annate migliori a partire dal 2011, proviene da un vecchio vigneto ultracinquantenario. Affina in barriques nuove e in botti di ciliegio. Spezie ribes, sottobosco, sfumature selvatiche e terrose. Al palato sembra più evoluto dei vini precedenti, come “pacificato” dal legno, con chiusura profonda. Christian sostiene che è una caratteristica di questa vecchia vigna e non dipende dal legno piccolo. Un Lagrein davvero personale e diverso dai precedenti.

A.A. Moscato Rosa 2017.
Il 70% della massa fa appassimento, il resto viene raccolto tardivamente. 160 grammi di zucchero per litro. Barriques nuove per un terzo della massa. Profumi varietali e simili a un rosso (“ma qui il naso è molto condizionato dalla macerazione”, spiega il nostro interlocutore), cannella, chiodi di garofano, mirtilli, amarene, caffè in grani. Molto dolce e leggermente tannico, ha una buona scorta di acidità a supporto e si sviluppa con garbo e gradualità. Polposo, glicerico, vino più da dolci che da formaggi.

In Der Eben (Urban Plattner)

In qualche modo, le due aziende esaminate qui sopra rappresentano una sorta di moderna classicità dei vini altoatesini. Quella che sto per descrivere, invece, si allontana decisamente da quei canoni per sperimentare nuovi orizzonti: dalla biodinamica, adottata cinque anni fa, alla vinificazione a grappolo intero al 100% per tutti i vini, fino ai lunghi invecchiamenti adottati anche per i bianchi e per la Schiava.

Il trentenne Urban Plattner, cugino di Christian di Waldgries, ha preso in mano le redini della cantina, precedentemente nota con il marchio Ebnerhof, da cinque anni ed è uscito nel 2016 sul mercato con le nuove etichette “In Der Eben”, cioè il nome con cui la tenuta era conosciuta fin dal 1500. I suoi vini danno l’impressione di voler coniugare una credibile visione del futuro vinicolo dell’area con sapori primari, ancestrali, legati alla terra e all’uva che vi viene coltivata. La scommessa da vincere, e l’impressione è che Urban sia sulla buona strada, è saper abbinare questa “naturalezza espressiva” con una precisione esecutiva tale da evitare imperfezioni e mantenere i vini piacevoli e senza difetti. Di sicuro lui è pienamente convinto delle sue scelte stilistiche: le bottiglie provate assieme dimostrano personalità e non lasciano indifferenti.

Il maso e le vigne sono a Cardano, in un altopiano sopra Santa Giustina, ad una altezza già considerevole (450-500 metri). Da tre ettari e mezzo si ricavano ventimila pezzi l’anno.

Ma ecco le mie impressioni sui vini.

Vigneti delle Dolomiti Igt Sauvignon 2015. Due anni in tonneaux usate, il 15% del mosto macera sulle bucce. All’olfatto il varietale (si avverte in particolare la foglia di pomodoro) resta sullo sfondo, predominano le erbe dell’orto, le spezie, la frutta gialla, gli agrumi. Buona spinta acida sul palato, è cremoso e di bel ritmo gustativo, la freschezza garantisce un finale compiuto e gradevole.

Vigneti delle Dolomiti Igt Roter Malvasier 2016. Urban è probabilmente l’unico a imbottigliare una versione in purezza di questo rarissimo vitigno (Malvasia Rossa), di cui detiene una vecchia pergola di meno di mille metri, fino a 50 anni fa abbastanza diffuso nei dintorni di Bolzano. Si tratta di una varietà precoce, molto delicata e difficile da portare a casa, essendo sensibile a tutte le malattie e soggetta al marciume. Anche il colore testimonia una fragilità congenita. Sfoggia un naso di aromaticità esuberante, che ricorda un Ruché, una Lacrima di Morro, un Aleatico, con fiori appassiti, terra bagnata, camino spento e spezie orientali. In bocca è molto fresco, polpa e succo dialogano a meraviglia; chiude con bella dinamica su note di arancia rossa e mandorla. Invecchia per due anni in tonneaux.

Vigneti delle Dolomiti Igt Sankt Anna 2016. Schiava in purezza, è in sostanza un Santa Maddalena non dichiarato che sosta per 18 mesi in botte grande. Odora di frutta secca, rose, viole, ha un sorso molto pimpante, dolce, dai tannini fitti e succosi e con bei rimandi di frutti rossi nel finale. Vino molto personale, diverso dalla gran parte delle Schiava in commercio, a metà strada tra il vino beverino d’annata e i primi accenni di evoluzione.

Vigneti delle Dolomiti Igt Sankt Anna R. 2012. È la versione “riserva” del vino precedente, invecchiata per ben quattro anni in botte grande. Naso più timido del 2016, meno fruttato, prevalgono le note balsamiche e speziate, si affacciano segnali di terziarizzazione con cuoio e leggero goudron. In bocca mantiene un’eleganza e croccantezza di frutto simile al precedente vino, pur in un contesto più evoluto. Urban spiega la così la scelta di un affinamento così lungo, poco frequente per la tipologia: “Io credo molto nella Schiava, è un grande vitigno che secondo me può invecchiare bene, in apparenza è ‘leggero’ ma non banale, ha una sua complessità”.

Vigneti delle Dolomiti Igt Freistil S.A. (da vendemmie 2014 e 2015). Blend che nasce in vigna: è infatti ottenuto da un appezzamento coltivato a Merlot per il 50%, le piante rimanenti sono di Lagrein e Teroldego. Freistil in tedesco vuol dire “stile libero”. Rispetto ai rossi precedenti ha naturalmente un corpo meno snello e più d’impatto, ma è tutt’altro che omologato: olfatto ricchissimo, con frutti rossi e scuri (ribes, mora, prugna), nocciole, cannella, resina, rabarbaro, cioccolato al latte. Sorso ricco, equilibrato, sapido, di bella estrazione tannica e di deciso ascendente minerale che regala agilità e dinamica. Da apprezzare la precisione aromatica che nel finale rimanda alle stesse bacche avvertite al naso. Vino goloso, caldo, sensuale.

Visite effettuate a maggio 2019 

 

Nato nel Luglio del 1969, formazione classica, astemio fino a 14 anni. Giornalista professionista dal 2001. Cronista e poi addetto stampa nei meandri dei palazzi del potere romano, non ha ancora trovato la scritta EXIT. Nel frattempo s’innamora di vini e cibi, ma solo quelli buoni. Scrive qua e là su internet, ha degustato per le guide Vini Buoni d’Italia edita dal Touring Club, Slow Wine edita da Slow Food, I Vini d’Italia dell’Espresso, fa parte dal 2018 della giuria del concorso Grenaches du Monde. Sogna spesso di vivere in Langa (o in Toscana) per essere più vicino agli “oggetti” dei suoi desideri. Ma soprattutto, prima o poi, tornerà in Francia e ci resterà parecchi mesi…

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