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Piccini, un nome di rilievo nel panorama del vino toscano

Il nome Piccini ricopre un posto di rilievo nel panorama del vino toscano, e non solo. Azienda familiare ma modernamente marketing oriented, protagonista di una ben pianificata espansione con la conquista di capisaldi nei comprensori più rilevanti, dal nucleo originale in Chianti Classico, alla Maremma, a Montalcino, ma anche in un’ottica più vasta sull’Etna e nel Vulture.
Eppure non è semplice per un marchio di autore di più di 20 milioni di bottiglie, e pervasivamente diffuso sugli scaffali degli autogrill dell’intera penisola restituire un’immagine di qualità e di capacità di interpretare i territori di eccellenza in cui opera. Le opportunità, peraltro, certo non difettano.

E la famiglia Piccini (perché di gigante, ma di azienda familiare si tratta) ha deciso di ripartire dalle origini, ovvero dal Chianti Classico. E in particolare dal “Geografico”.
Proprio quella gloriosa cooperativa, fu pioneristicamente fondata da soli 17 viticoltori ai primordi degli anni ’60, quando fare vino, anche in Toscana, era altro: la maggior parte del prodotto era destinato al consumo quotidiano, la cultura della qualità nella ristorazione di là da venire, l’apertura al mercato internazionale un’araba fenice, da molti agognata ma con l’inconscia consapevolezza di non avere gli strumenti, le conoscenze, la qualità diffusa, la filosofia per potersi confrontare nel mondo.
Ma questi (orgogliosamente) contadini fecero tesoro dell’ambiente unico in cui operavano, nel modo più semplice: impegnandosi per ottenerne il massimo amandolo profondamente. Furono i primordi di una cultura del territorio, della sostenibilità e (successivamente) della conservazione che adesso costituisce le fondamenta di ogni progetto vitivinicolo. Lo diceva il nome stesso che identificava questa avventura: “Agricoltori del Chianti Geografico”, ovvero solo i territori di Gaiole, Radda e Castellina, i cui territori erano uniti nella Lega del Chianti di storica memoria.

È una storia costellata anche di successi commerciali, e di bottiglie che hanno regalato più di un momento gradevole ai molti che le hanno godute, tanto più a fronte di prezzi che rimanevano quanto mai convenienti in un Chianti che finalmente ritrovava la sua notorietà internazionale.
Ma tutte le belle storie finiscono, e le difficoltà economiche dovute a qualche investimento un po’ troppo ambizioso in un mercato globale sempre più competitivo hanno rischiato di determinare la fine della cooperativa. Per fortuna dei suoi soci è arrivato un cavaliere bianco, nella forme della famiglia Piccini, che prima ha assunto la gestione della cooperativa nel 2018, poi la ha definitivamente rilevata l’anno successivo. Ma si noti bene, senza disfare il patrimonio di vigne per far cassa, né tanto meno privandosi dell’esperienza e delle competenze della forza lavoro: tutti i dipendenti del Geografico hanno potuto continuare a lavorare nella nuova società, e così non è andato disperso un prezioso patrimonio di conoscenza, a tutto beneficio della qualità della materia prima, e del profilo stilistico delle diverse etichette, pur in un contesto di grandi numeri. Quanto agli ex soci, si sono trasformati in conferitori, e così l’interesse a produrre uve perfettamente sane e mature permane intoccato.
A coronamento e celebrazione di questo percorso, per il 60esimo anniversario del Geografico Piccini ha prodotto tre nuovi Chianti Classico della linea “Terzieri”. Il nome in sé è una sorta di dichiarazione programmatica: i tre Terzieri sono Radda, Castellina e Gaiole, ovvero i componenti della Lega del Chianti. L’uvaggio (indifferenziato) è rigorosamente Sangiovese in purezza. E si è scelto di presentare vini da uve selezionate certo, ma come Chianti Classico annata, allo scopo di evitare che l’ostinata ricerca della struttura e del potenziale di evoluzione di una Riserva o di una Gran Selezione, potessero ricoprire sotto un belletto di sentori di legno e confezione enologica il vero scopo di queste etichette: caratterizzazione territoriale, al massimo livello di purezza.


Abbiamo avuto l’opportunità di assaggiare in anteprima i tre Terzieri lo scorso autunno. A fronte di una vinificazione tradizionale e più o meno simile (fermentazione a temperatura controllata e 12 mesi di affinamento in botti), lo scopo dell’affermazione identitaria pare compiutamente conseguito.
Il raddese Terziere di Tramontano è profondo nel colore, e nello sfoggiare la verticalità salina che ci si attendeva, con adeguata ossigenazione transita da un’accattivante immediatezza fruttata a un ventaglio più variegato di sfumature fragranti. Nell’annata calda, l’estrazione tannica non è timida, con un finale per adesso leggermente rigido; ma anche, non fa difetto un’accattivante avvolgenza che costituisce una piacevole sorpresa. In sintesi: non fa difetto il carattere della sapidità raddese, ma l’influsso dell’annata è sinceramente presente come maturità e volume.
Viene da Castellina il Terziere di Ponente, sulle prime reticente all’olfatto, con toni eterei, affumicati e di cenere; poi si dispiega il frutto, ciliegia matura e prugna, che abbelliscono un’impalcatura tannica imponente. L’allungo ne risulta per adesso un poco frenato, come se la massa del vino ne comprimesse la progressione aromatica. Il finale è comunque in dolcezza, screziato da qualche richiamo terroso e di goudron.

È un vino assertivo, pieno, forse bisognoso di una permanenza in bottiglia più prolungata affinché possa dispiegarsi del tutto.
Chiude in bellezza il Terziere di Levante, da Gaiole. Sul macigno del Chianti, il naso è più aperto, con fragoline di bosco, fragole (più fragranti), per sfociare in un’impressione “uvosa” più che vinosa, quasi leggermente surmatura. Il palato ha grip, sapidità, profondità che lo distendono in una dolcezza avvolgente che chiude su richiami agrumati.

 

La beva non ne risente, e si fa piacere per questo “mare di frutto in cui è dolce naufragare”. Se cercate la tensione non è forse questo il vostro vino, anche se l’acidità si integra nel corpo; ma il più urgente bisogno di frutto del degustatore può esser qua agevolmente soddisfatto, senza stucchevolezze.
A corredo della degustazione dei Terzieri, e a maggior gloria di una gamma insospettabilmente (per molti) qualitativa, è stata offerta l’opportunità di assaggiare tre annate del Pevera, un Supertuscan con base di Sangiovese al 50%, cui si sposano Cabernet Sauvignon per il 40% e un saldo di Syrah per il 10%. Impeccabile nella confezione, vi spadroneggiano i vitigni internazionali, con il Sangiovese a fornire il necessario contrasto acido: larghezza di frutto rosso e nero, un tocco non sfacciato di spezie dolci di legno, garbo estrattivo e un finale che si declinava in vegetale e balsamicità. Questo, mutatis mutandis, il carattere di tutti i millesimi, con un 2016 suadente che inizia a terziarizzare i profumi, un 2018 più “scuro” nel ventaglio aromatico e leggermente amaricante sul finale, un 2019 affusolato, dotato di buona sapidità, dal fine bocca striato dal gusto del cioccolato.
In generale, una degustazione gradevole, con vini ben caratterizzati anche dal punto di vista territoriale. E un vero schiaffo per chi si attacca al preconcetto che i “grandi gruppi” del vino producano necessariamente etichette scontate dal punto di vista stilistico, e affossate sui dettami non sempre ben precisati di un a volte fantomatico gusto internazionale. Un plauso a Piccini e alla tradizione chiantigiana del Geografico, perché per fortuna esiste un mondo oltre il 3 x 2 dell’autogrill… E inoltre, in un momento storico in cui il Chianti Classico intraprende un percorso di crescita qualitativa e identitaria con l’istituzione delle già famigerate UGA (Unità Geografiche Aggiuntive), bene che un produttore autore di grandi numeri porti ad esse rispetto, senza dover necessariamente passare per l’ambizione (e il prezzo) di una Gran Selezione.

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