Ci sono vitigni destinati a fare la fine dei dinosauri. Sono i vitigni che mi affascinano di più. È il fascino di chi resiste, la forza di chi sfida l’emarginazione. Perché di fatto, dopo l’istituzione delle prime DOC è accaduto un po’ questo, che mentre alcune varietà hanno sempre più preso piede, altri vitigni locali, minori, che in passato arricchivano gli uvaggi, sono stati accantonati.
Ogni regione ha i suoi dinosauri. Nelle Marche l’ultimo superstite incontrato è il Gallioppo. Mi sono messa sulle sue tracce affidandomi a chi, tempo addietro, lo riesumò, Settimio Virgili, ampelografo ed ex funzionario Assam. Mi spiegò che nelle Marche, il Gallioppo, una volta, era molto conosciuto, come pure in Umbria e in Abruzzo. Magari non tutti lo chiamavano con questo nome. C’è chi lo aveva ribattezzato Alloppa, chi Galloppa, Gaglioppa, Rana, Grana o Balsamina. Bruno Bruni, l’ampelografo marchigiano degli anni ’60, nel suo dattiloscritto non pubblicato (Ampelografia marchigiana) ne parlava così: “Vitigno che sembra d’origine marchigiana, molto diffuso nelle vecchie piantagioni, specie nelle province di Ascoli e un po’ meno in quella di Macerata, anche con il nome di Galloppa, Balsamina galloppa, Moretta, Lancianese nero e, limitatamente in quella di Ancona, con il nome di Balsamina grossa”. E ancora: “Per la quantità dell’uva prodotta, per la sua qualità, può considerarsi varietà di un certo merito e potrebbe essere conveniente la sua diffusione e quella della sue sottovarietà, specie nelle zone litoranee e ben esposte della provincia di Ascoli, per unire la sua uva a quella di altre varietà, specie del Montepulciano”.
Virgili mi disse anche che un’altra antica testimonianza della presenza del Gallioppo nelle Marche è stato possibile ritrovarla negli archivi del Comune di Cossignano (AP). Lì è custodito un periodico del tempo, “L’amico dell’agricoltore” – Anno XIV del 10 marzo 1915. Alla sezione consigli per l’agricoltore si legge: “Innestiamo le viti che producono poco e quelle che producono qualità scadente come il Cacciò. Ogni anno si ha il proposito di sostituire un certo numero di viti con qualità buone da vino come il Sangiovese, la Gaglioppa…”.
Nel tempo, però, le superfici vitate a Gallioppo sono andate via via diminuendo, fino a scomparire. Ne rimase giusto qualche esemplare sparso, come alberate, viti maritate all’acero o in residui di vigneti storici. Grazie ad essi è stato possibile avviare l’azione di recupero.
Eppure, che il Gallioppo, vitigno autoctono, raro, in via d’estinzione, sia dotato di grandi potenzialità produttive ed enologiche, nelle Marche lo hanno compreso in pochi. Che io sappia in due. E, cosa ancor più buffa, nessuno dei due è marchigiano.
Il primo a credere nel Gallioppo è stato Helmut Kindermann, un signore della Baviera trasferitosi a Monte Rinaldo, in provincia di Fermo. Da ultimo Massimo Ciscato e sua moglie Michela, due milanesi che si sono innamorati di Monsampietro Morico, sempre nel fermano. Volevano cambiare vita, abbandonare il caos della metropoli. Hanno girato un po’, hanno scoperto le Marche, coi Sibillini che mai avevano visto prima. Così sono rimasti e adesso li guardano ogni mattina quei monti, non appena mettono il naso fuori dalla porta.
Massimo a Milano era fotografo pubblicitario e direttore della fotografia, Michela una contabile. A Monsampietro Morico sono capitati per caso. Appena arrivati adocchiarono una casa, al di là della collina dove sono ora, ma era già stata venduta. Pazientarono un altro anno e la casa dei loro sogni non si fece attendere. Da allora sono passati otto anni. L’hanno ristrutturata ed è diventata una country house immersa nella campagna.
L’avventura del vino è venuta con sé. Hanno impiantato una piccola vigna, di un ettaro circa. Fittissima, essa guarda verso Sant’Elpidio Morico, frazione di Monsampietro Morico, verso l’inconfondibile sagoma della chiesa di San Michele, i suoi campanili gemelli e, al suo interno, il trittico del Crivelli del 1496. È esposta a sud, produce sui 30 quintali l’anno. Più in basso ci sono altri 1000 metri di vigna, ha più di 60 anni. I primi 11 filari sono di Gallioppo, i restanti di Trebbiano e Pecorino. Quando dovevano decidere che vitigni mettere il vicino ha suggerito loro il Gallioppo, nel suo appezzamento c’era una pianta dalla quale tutto partì. I tecnici dell’Assam, infatti, si erano recati sul campo, la videro e constatarono che veramente si trattava di Gallioppo, così ne riprodussero le viti.
Il casale, con l’annessa micro cantina, Massimo e Michela l’hanno chiamato “Biancopecora”. Avevano appena comprato casa, dovevano iniziare a ristrutturarla. “Chi ce lo fa fare?” si sono detti tornando a Milano, dopo il weekend in campagna. Poi, una volta a Milano, sono bastati tre giorni per cambiare idea. Sono tornati a Monsampietro Morico, per rimanerci per sempre. «Siamo molto legati a questo territorio, non perché ci siamo nati ma perché lo abbiamo scelto» è la dichiarazione d’amore più bella che potessero fare al loro paese adottivo. In autostrada sparavano nomi a caso, lei pensò ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”, al Bianconiglio. Ma nei dintorni i conigli non c’erano, le pecore sì. E c’era anche l’idea nella loro testa di impiantare il Pecorino. Nasce così “Biancopecora”. Essere lì è un po’ come essere davvero nel paese delle meraviglie. Anche i turisti che arrivano, italiani ma soprattutto stranieri, provano la stessa sensazione.
Entriamo nella piccola cantina con angolo degustazione. Nico Speranza, l’amico viticultore, in questi anni ha sempre dato una mano a Massimo. Il lavoro lo hanno fatto insieme, ma adesso per Massimo e Michela è arrivato il momento di diventare autonomi e si stanno attrezzando per questo. E anche per le degustazioni, molto presto, arriverà uno spazio più ampio.
Qui, tini e bottiglie convivono con il fumetto. La passione a Massimo gliel’ha trasmessa suo padre, l’editore Ennio Ciscato. Tra le sue riviste di successo c’è “Sorry”. La copertina di un numero del mensile è appesa alla parete.
Dall’altro lato, invece, c’è Anita, l’eroina di Guido Crepax, grande amico di Ciscato, con il quale ha molto collaborato.
“Vitalbero” e “Rosso forte” sono le due etichette. Il primo è un blend di Pecorino e Trebbiano. Prima annata 2017: ne è rimasta una bottiglia, la vogliono custodire per poi stapparla quando inaugureranno la nuova sala degustazione. Il secondo è un 100% Gallioppo delle Marche. La cantina si trova in via Cisterna ma, come spiegatomi da Massimo, un tempo questa contrada si chiamava “Vitalbero”, per via della presenza delle viti maritate agli aceri campestri. Il nome del bianco deriva da questo. Stappiamo insieme un 2019.
Fresco, bello strutturato, con una buona acidità. Una parte ha fatto acciaio, l’altra è finita in barrique di rovere. Sarà per questo che al naso mi giungono profumi di burrocacao e cipria, oltre a spiccati sentori agrumati. Poi, arriva il momento del Gallioppo. Anche di questo apriamo un 2019.
Per lui niente legno. La particolarità sta, invece, nell’appassimento della totalità delle uve in fruttaia, per oltre un mese. Le etichette le ha disegnate Massimo, che ha studiato anche grafica. Sul Gallioppo è disegnato un pugno. Perché è duro, corposo, un “Rosso forte” appunto, eppure va riconosciuta la bravura del viticultore nel domare il tannino, che è vero che si sente ma è delicato, piacevole; bella struttura anche lui, grande morbidezza e un’importante spalla acida che sostiene il tutto.
Tra un calice e l’altro scopro che uno dei tre appartamenti della casa vacanze si chiama “Sanforte”. Allora ripenso agli studi condotti dall’Assam e dall’Università Politecnica delle Marche di cui l’ampelografo Virgili mi aveva parlato: il Gallioppo delle Marche presenta corrispondenze genetiche con il Sanforte, diffuso in Toscana. Il Gallioppo presente nelle Marche è proprio sinonimo di Sanforte, ma diverso dal Gaglioppo diffuso in Calabria, quello descritto in Ampelografia Ufficiale, con il quale presenta solo un caso di omonimia. C’è di più: recenti ricerche sviluppate dal CREA di Conegliano hanno accertato la corrispondenza tra il Gallioppo e un altro vitigno ancora, la Maiolica. Sanforte, Maiolica e Gallioppo… insomma tre nomi diversi per indicare un unico vitigno!
Marchigiana, classe 1994. L'infanzia la trascorre in campagna, giocando in mezzo al grano e scorrazzando tra i filari. Dopo la maturità classica si laurea in giurisprudenza. Nel maggio 2021 diventa giornalista pubblicista. Per il vino ha nutrito sempre un profondo affetto, trasformatosi in amore nel 2018. Freelance presso un quotidiano online della provincia di Fermo, di vino scrive per passione sul suo neonato blog e sulla rivista Sommeliers Marche Magazine. Sempre a caccia di storie, di mani sapienti da raccontare, di vitigni da scoprire, di cantine da visitare, sogna che un giorno, tutto questo, possa diventare il suo lavoro.
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