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Livio Felluga fa poker di cru – Scelta inedita dell’azienda: c’è anche un Pignolo del 2011

Coraggiosa e lucida la strada avviata a suo tempo e percorsa poi da Livio Felluga, patriarca scomparso (aveva 102 anni) un lustro fa.

Una scommessa sul territorio che, in certi momenti, da osservatori meno acuti o semplicemente conservativi può esser parsa perfino un azzardo. Ma che era invece quella giusta, premiante alla fine sia sotto il profilo della qualità che del risultato imprenditoriale. A continuare quel percorso – e in primis il suo solco “ideologico”, quello del metodo e delle scelte – ci sono ora il figlio di Livio, Andrea, e da poco, di ritorno da quella che lei stessa definisce una tranche di vita professionale e personale da globetrotter, Laura, figlia di Andrea.


E allora, continuità e innovazione: il cocktail che in fondo è sempre stato espressione della ricetta di famiglia.

Tradotta stavolta nel varo di quattro nuove etichette, espressione ognuna di una singola varietà,ma soprattutto di un appezzamento particolarmente vocato per esaltarne al meglio i caratteri: quattro cru, dunque, individuati all’interno della vasta e articolata proprietà aziendale, che debuttano guardando sicuramente in avanti (e innovando una linea che in casa Felluga ha espresso sin qui i suoi top attraverso vini di assemblaggio, come il celebrato Terre Alte). Senza contraddizioni però; anzi, approfondendo ulteriormente la radice che lega il marchio alla sua terra e scegliendo anche per la veste delle nuove bottiglie un look che richiama la storia del brand.


È il 2018 il millesimo comune ai tre bianchi, mentre con un balzo orgoglioso e profondo un intero decennio debutta un Pignolo (ovviamente di Rosazzo) targato addirittura 2011.
Ed è davvero interessante iniziare a raccontare dal fondo, cioè da quest’ultimo “deb” di lusso, il quartetto: complessità, frutta matura ma integra, spezia in abbondanza, piccole evocazioni balsamiche, treccia di tabacco, ricordi fini (non invadenti) di caffè, e una beva che rispetta il carattere dell’uva ma lo mitiga, senza stravolgerlo, secondo lo stile “liviano”, in un esito di piacevolezza.

Da signore di belle maniere. Eremita il nome, eloquente quanto basta.
Riuscito anche il “ricamo” sul Friulano Sigar, vigne quasi cinquantenni sulla ponca, prezioso terreno di zona. Di tipicità meno immediata (stesso discorso che varrà per il Sauvignon se per tipicità si intende la nota ammandorlata tout court per l’uno e quella, riconoscibilissima ma drasticamente erbacea, per l’altro; entrambe poi, a ben vedere, frutto di deviazioni oltre la linea mediana; della maturità la prima, dell’immaturità la seconda). Ma variegato, con note delicatamente erbacee, frutta bianca e una nitida spina agrumata. Curiosità:  è allevato in anfora. Ma senza “targhe” evolutive forzate a rimarcare la scelta.


Si “fa” in coccio pesto invece il Pinot Grigio Curubella, che esprime la sua unicità di quasi rosso nell’animo e bianco nell’esito già dal colore ramato; e poi rilancia su note (con un cenno metallico, che è nel Dna dell’uva) in cui pepe, erbe officinali, frutta gialla si dividono con successo il campo.


Il Sauvignon Potentilla (un Colli Orientali per ubicazione del vigneto) infine: espressione di quella corrente friulana che qui – ma anche altrove – sceglie anche per quest’uva il legno, ma usato con discrezione e in taglie non invadenti; malolattica svolta quindi, note tattili non scabre e cremose, erbaceo ridotto ma fine, ricordi di pesca ed esotici – anche lychees fresco – nel scandiscono in coerenza il tessuto.

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