Un fulmine. Una freccia scagliata da Cupido e arrivata dritta al cuore. Poche volte, nella mia esperienza di assaggiatore di vini, sono stato rapito e conquistato come ha fatto questa bottiglia di Barbera d’Asti Bricco dell’Uccellone (all’epoca ancora etichettato come vino da tavola) prodotta nella lontana vendemmia 1985.
Un’etichetta storica, che rilanciò un vitigno e una denominazione fino ad allora neglette, e proiettò Giacomo Bologna nell’olimpo dei nuovi vignaioli italiani, i cosiddetti “modernisti”, fenomeno molto discusso all’epoca e anche in seguito, accusato (non sempre a torto) di deviazionismo rispetto alla tradizione vinicola e allo stile italiano, tanto che le polemiche sono giunte fino a noi.
Però è il momento di dirlo: barrique o non barrique, quello che conta è nel bicchiere, anche e soprattutto a distanza di anni. Di fronte a un capolavoro come questo Bricco dell’Uccellone, prodotto dall’azienda Braida circa trentatré anni fa, ci si può soltanto levare il cappello e rendere omaggio alla memoria di un grande imprenditore e lungimirante vigneron scomparso troppo presto, il giorno di Natale del 1990.
Bologna, per i pochi che non lo sanno ancora, riuscì nell’impresa di nobilitare un vino, il o meglio “la” Barbera, fino ad allora di stretta matrice rustica e contadina, spesso frizzante, consumata a pochi mesi dalla vendemmia, con acidità sopra le righe e struttura esile, così come voleva la natura stessa del vitigno. Mise prima in commercio una versione raffinata ma ancora legata a quello stile, La Monella, per poi rivoluzionare il mondo del vino col Bricco dell’Uccellone, prodotto a partire dal 1982, seguendo l’esempio dei vini francesi e californiani: vendemmia posticipata, per una maggiore ricchezza di frutto, malolattica, per ammorbidire la naturale acidità dell’uva, e barriques di rovere a donare eleganza e struttura.
Oggi, una bottiglia come il 1985 dimostra che ciò che conta, al di là delle tecniche utilizzate, è il risultato: e una Barbera così buona e integra dopo più di trent’anni fa commuovere.
Un vino poetico, al di là del nome che negli anni ha spesso evocato giochi di parole di dubbio gusto (in realtà pare che “uccellone” fosse il soprannome di una signora sempre vestita di nero e non particolarmente avvenente, molto in là con gli anni, che bazzicava la vigna da cui Bologna ricavò il vino).
I profumi sono variegati e complessi, la terziarizzazione è evidente ma non pregiudica tonicità e freschezza. Sulle prime il liquido, come disorientato dopo tanti anni di riposo, esprime tutto il suo disagio a contatto col nuovo ambiente: cassetto della nonna, gomma pane, cuoio, brodo, rosolio, olive nere e verdi. Ma pian piano escono fuori note più fragranti di tè nero, fiori appassiti, cannella, marmellata di more, chicco di caffè. A distanza di un giorno rilancia ancora: prugna, tabacco, cacao in polvere, liquirizia dolce, rabarbaro, pepe nero, perfino un ricordo di vaniglia.
Anche in bocca dà il meglio di sé diverse ore dopo la stappatura, quando il sorso si fa addirittura fresco, scattante; il tannino è ormai un soffio ma la dinamica gustativa è ancora in moto, elegante e inarrestabile, spinge con grande energia sul palato evocando un frutto ancora presente, scorza di arancia, mirtilli, visciola. Finale di grande persistenza e finezza. Fantascienza pura.
Nato nel Luglio del 1969, formazione classica, astemio fino a 14 anni. Giornalista professionista dal 2001. Cronista e poi addetto stampa nei meandri dei palazzi del potere romano, non ha ancora trovato la scritta EXIT. Nel frattempo s’innamora di vini e cibi, ma solo quelli buoni. Scrive qua e là su internet, ha degustato per le guide Vini Buoni d’Italia edita dal Touring Club, Slow Wine edita da Slow Food, I Vini d’Italia dell’Espresso, fa parte dal 2018 della giuria del concorso Grenaches du Monde. Sogna spesso di vivere in Langa (o in Toscana) per essere più vicino agli “oggetti” dei suoi desideri. Ma soprattutto, prima o poi, tornerà in Francia e ci resterà parecchi mesi…
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