Mancava all’appello un caro amico nella mia recente rimpatriata in terra toscana.
Tenuta Montauto, l’azienda di Riccardo Lepri, ha rappresentato per il sottoscritto la fine di un pregiudizio atavico e duro da sconfiggere: quello dei vini di Maremma alcolici, eccessivamente fruttati e dai tannini “ignoranti”, come dicono i contadini locali.
Delle sperimentazioni di Riccardo, inclusa la stupefacente novità del Vermouth, mi sono dilungato in più puntate, ma non avevo ancora visitato la sua azienda posta nelle bellissime campagne di Manciano (GR) in località Campigliola.
Un vago richiamo dei paesaggi provenzali, ricchi di morbide colline ed altipiani dai profumi intensi di macchia mediterranea.
Arrivando al limitare del portone di ingresso noto proprio questo: una collezione di piante officinali cresciute su un terreno argilloso frammisto a quarzite.
Ecco la peculiarità del luogo, trasmessa inesorabilmente ai prodotti. Un perfetto amalgama, molto gradito alle piante, da cui trarre nutrienti, calore e minerali essenziali a dare complessità ed eleganza.
Duecento ettari totali tra coltivazioni e bosco, compreso un piccolo maneggio; quattordici appena quelli vitati, a testimonianza che la quantità non sempre comporti qualità. La scelta dei fermentini in acciaio quale unico contenitore per questa delicata fase produttiva, è dovuta alla “neutralità” di sentori aggiunti voluta da Riccardo. La delicatezza, la fragranza e il territorio devono prevalere su qualsiasi indirizzo stilistico.
Una saponetta di zinco alla base del cilindro aiuta a scaricare eventuali correnti galvaniche per mantenere il liquido in condizioni integre, lavorando in totale riduzione.
I bianchi concludono in inox la loro corsa, i rossi invece la proseguono anche in barrique di vari passaggi, tra le quali spiccano 5 selezionatissime per la nuova realtà “Poggio del Crine”.
Tenuta Montauto sa esprimere, grazie ad un clima particolarmente fresco per esposizioni e correnti ascensionali provenienti dal Mar Tirreno, oltre ai classici autoctoni come Vermentino e Sangiovese, due tipologie insolite per l’areale: Sauvignon Blanc e Pinot Nero.
Alcuni ceppi sono stati recuperati con estrema cura da vecchi filari di età superiore ai 40 anni, altra autentica rarità per la zona.
La lunga lista degli assaggi comincia dunque dal Vermentino Maremma Toscana DOC 2019, che Lepri considera un vino d’ingresso; espressione non sempre felice sopratutto di fronte ad un risultato positivamente sorprendente. Note da composta di pera Williams e fiori di acacia, unite a rosmarino e felce. Buona lunghezza salina nel sorso, gradevole sia adesso sia in prospettiva.
Per tutti i bianchi dobbiamo rilevare ad onor del vero, delle perplessità per la 2020 ancora campione da vasca, a causa di variazioni climatiche altalenanti. Il fattore “N” (come Natura) comanda quando non si vuole rendere ogni anno un prodotto fotocopia: speriamo nel fattore “C” a compensarne le difficoltà..
GESSAIA 2019: ed è subito Loira! Puro divertimento, grazie alla piena maturità enologica raggiunta dalle vigne di Sauvignon Blanc. Da quel lontano 2008, prima annata, i passi in avanti sono gargantuelici. Erbe mediterranee, pietra marina esplosiva al palato ed una spolverata di nespole ed agrumi. Il bosso c’è..ma non si sente.
GESSAIA 2012: in Toscana la ricordano come molto siccitosa, potenzialmente letale per alcuni vini. Ma la posizione privilegiata della tenuta ha saputo proteggere ed esaltare le doti evolutive di questo gioiello. Il colore vira sull’oro antico, il naso è da Rheingau con espressioni idrocarburiche, albicocche mature, pepe bianco, cannella e grafite. Mineralità all’ennesima potenza da fuoriclasse (e fuori categoria).
ENOS I 2019: una bomba. Dalle vecchie vigne di Sauvignon Blanc in produzione, di cui alcuni filari sono non databili, superiori al mezzo secolo di vita. Si conferma una annata eccezionale, con spalla alcolica perfetta che esalta i profumi di arancia gialla e cedro, ginestra e zagara, foglia di pomodoro, timo e tante altre piante officinali. Per intenderci il 96/100 è meritatissimo, uno dei migliori Sauvignon italiani. Lo abbiamo assaggiato anche in versione 2011 ormai introvabile e già aperto da qualche giorno, per capirne quell’evoluzione mielosa e speziata che sa dare nel tempo.
POGGIO DEL CRINE 2016 – PINOT NERO – avevo accennato di questo nuovo progetto al Food and Wine in Progress due anni fa alla Stazione Leopolda. All’epoca era tutto in divenire, poi ha preso finalmente forma. Unico, assieme al suo omologo bianco, ad aver concluso la fermentazione dall’acciaio in legno. Nessuna chiarifica, minimo intervento possibile. Sentori di china, rabarbaro, bergamotto, con un tocco ancora vegetale che dimostra gioventù. Tannini già perfettamente integrati. Un classico esempio da “Odi et amo” che vivono i produttori nostrani nei confronti dei cugini francesi. Riccardo non nasconde infatti la profonda ammirazione per il lavoro svolto oltralpe, che gli è servito da guida nel suo mestiere.
POGGIO DEL CRINE 2018 – SAUVIGNON BLANC – niente malolattica, una profusione di vaniglia, cannella, mela golden e fiori di lavanda. Pochissimi filari dedicati in origine all’Enos I. Complesso, energico ed elegante: il futuro di Montauto.
Luca Matarazzo Giornalista- Sommelier AIS - Degustatore Ufficiale - Relatore corsi per la Campania.. Ha partecipato a numerosi concorsi enologici e seminari di approfondimento. Vincitore del Trofeo Montefalco Sagrantino edizione 2021 e del Master sull'Albana di Romagna 2022, Wine Consultant collabora attualmente con testate giornalistiche e blog importanti a livello nazionale.
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