“Josko a volte non viene capito e quello che dice suscita reazioni che lui stesso poi non si aspetta. Il fatto che è che stando da soli in vigna per tanto tempo a lavorare, con la persona più vicina a metri di distanza, che se vuoi dirgli qualcosa devi praticamente urlare, parli molto poco, pensi e pensi. E quando hai pensato, distilli una cosa e – questo è lui – è come se ne avesse già discusso a lungo, anziché solo con se stesso, anche con gli altri. Dunque quando parla lui tira fuori il distillato del processo mentale, salta tutto il processo e cade dalle nuvole quando vede che qualcuno (come magari è normale) non ha capito. Aggiungici poi che lui pensa in sloveno e parla in italiano (praticamente traduce se stesso) e il gioco è fatto”.
Incanta sentir descrivere la personalità del (ecco: come chiamarlo? mago, no. Leader, appunto, non è corretto. Druido? Visionario illuminato?… facciamo così: limitiamoci a l‘Uomo di Lenzuolo Bianco, Oslavia, Collio o Brda secondo da che lato e in che lingua la guardate) da Mateja, sua figlia, la persona che gli sta accanto in casa e sul lavoro – nella vita insomma – più di ogni altra.
Diverte e incanta sentire che l‘idea del ritorno al profondo, a casa, alle radici (spiantare tutti i varietali bianchi che pure tanto succeso e fama gli avevano dato nel momento della rinascenza del miglior vino italiano e concentrarsi sull‘uva per lui figlia legittima della terra di lì, la Ribolla) c‘era già ai tempi in cui un Veronelli già noto e corteggiato (più tardi venerato, e con buoni motivi) si fermò da lui, col traffico intasato sulla strada davanti casa perché tantissimi altri vignaioli, saputo della cosa, passavano e ripassavano nella speranza di intercettare Gino, il vate del vino, all‘uscita.
Un‘idea poi, come ben si sa, quella della Ribolla e stop, portata inesorabilmente a dama. Come tutte le altre made in Josko.
Come la certezza – dopo un viaggio a Napa – di aver capito “i vini che non voglio e non vorrò mai fare“.
E il processo – come sempre rivoluzionario e drastico, e come sempre imitato – che lo ha portato a scegliere l‘anfora e a implementare – senza fidanzarcisi ufficialmente o rivendicarle in esclusiva – le sue azioni con pratiche legate alla biodinamica. O a scegliere il numero 7, summa del 3 e del 4 (e così ricorrente in tutte le numerologie laiche o religiose, dai vizi capitali ai samurai del cinema) come regolatore dei cicli vitali dei suoi vini:i bianchi rilasciati dopo un ciclo, i rossi oggi – alla fine di un processo a tappe – dopo due, a 14 anni dalla vendemmia. E, infine, a puntare anche qui su un equivalente indigeno della Ribolla, ovvero il Pignolo.
Strada, questa, che è andata a impattare un‘altra delle etichette di casa: il Rosso Breg, virato allo stato odierno.
Ed eccola, allora, la prima verticale in assoluto del Breg più colorato (“Mai fatta neanche in azienda, neanche per far la prova generale“, spiega disarmante Mateja, almeno in questo, pur così diversa, pienamente figliola del papà): e via all‘esperienza emozionante ed emozionale dell‘assaggio di un vino che ancor oggi è “da tavola“ perché nella zona dove, pur a lungo negletto per le difficoltà di gestione e di “carattere“ (e anche qui c‘è affinità con il suo mentore), dovrebbe essere di diritto tra i notabili, il vitigno Pignolo non fa parte neppure dei migliorativi ammessi; e così anche il recupero della possibiltà di indicare il millesimo di vendemmia (escluso inzialmente per quella tipologia e riservato ai soli “denominati“ o “indicati“) ha richiesto rempo e fatica.
Partenza con il 2003. Annata prototipo delle supercalde e del cambiamento climatico in corso (quello per cui, racconta Mateja, capitava che uno Chardonnay atteso a totale maturità in vigna facesse poi, se portato a zero di zuccheri, 17 gradi di alcol). Con premessa sulle quantità prodotte e sulla ulteriore singolarità del Pignolo, che non segue le logiche consuete di abbondanza e scarsità d‘annata, ma sovente anzi le ribalta, passando disinvolto da un plafond di 1200 bottiglie a uno da 3000 e vicecersa, ma dribblando ogni attesa e pronostico.
Incenso, resine, gomma, persino muschio e artemisia, appena versato. Poi ricordi di bacche blu, bocca importante (e soprattuto integra) con finale balsamico e di sale. Attesa, riassaggio: e anziché regresso ossidativo ecco alzarsi un velo, e sotto spuntare (con conferme di mentolato e sale finale) una sorprendente scia di piccoli frutti. Siamo ancora, qui, alla fermentazione a due braccia: parte in legno, parte in anfora. Tutto in anfora sarà dal 2006. E di lì – ma in fondo chi può dirlo? Josko è l‘uomo delle rivoluzioni totali, anche se questa ora in auge sembra l‘approdo a quella “autenticità“ totale del vino somma della sua terra, della sua uva e del pensiero di chi sceglie come farlo, che è l‘oggetto della sua ricerca – fatto sempre così, con breve contatto con le bucce.
E vai col 2004. Più acqua del precedente dal cielo, annata abbastanza classica dal finale appena un po’ piovoso. Coerente, il naso articola un‘offerta più immediatamente fruttata, la bocca è più fresca, ma tutt‘altro che magra: e si vena quasi di genziana, si addolcisce appena di carruba, mentre restano (pur diversamente proporzionati) il filo salino e quello finale balsamico
Il 2005 è l‘ultima annata in cui c‘è ancora utilizzo di legno in fermentazione. E ha struttura totalmente diversa. È quello delle famose 3000 bocce prodotte (record) a dispetto delle stimmate d‘annata. E invece d‘esser diluito dalla produzione triplicata o quasi, è tanta roba. Impegna, riempie. Tiene, e piace.
Del 2006 imbottigliato solo in magnum (e primo fermentato in anfora 100%) sentiamo due bottiglie. La prima da subito incriminata per una possibile débacle del sughero, e comunque fuori registro (gli incerti della diretta, come aveva spiegato all‘inizio Mateja) e la seconda portata al volo da fuori città da un fantastico “pronto soccorso“ Rosso Breg (un cliente fedele di SH, organizzatore e ospite della degustazione). Ed è questa seconda la bottiglia quella da bere godendola (insieme allo 03 magari, per confronto tra tutt‘anfora e non ancora) anche… stasera, figlia evidente di annata asciutta, ma di densità e “dolcezza“ (si fa per dire, ovviamente: più che altro accoglienza) evidenti e con una nota cremosa al tatto in bocca.
Il 2007 è semplicemente giovanotto – anni 14 dopo il parto in vigna, e non ancora in giro! – rutilante e splendido. In bilico tattile pienamente “riempiente“ come il precedente, ma dal tenore decisamente vibrante, sonoro, e sostenuto da un finale tannico (il primo che forse pienamente disegna, più del 2006, proprio nella trama, lo stacco dal diverso cordone ombelicale del legno in fermentazione) fondo, denso e misterioso. Perché prelude a un futuro lunghissimo da scrivere, pur nella già straodinaria, coinvolgente attraenza del presente.
La penultima citazione è per chi ha fortemente voluto e a braccia aperte ospitato la giornata (rimediando alla grande anche al problema 2006): SH, Sviluppo Horeca, appunto, che distribuisce anche una forzatamente minima, ma preziosa, assegnazione di vini Gravner.
L‘ultima per Fabio Turchetti, co-conduttore (con Mateja) e “voce“ critica: capace di render lieve ogni entità e tonnellaggio descrittivo, e di coinvolgere appieno seza un filo di prosopopea o retorica gratuita. Ce ne fossero… (esattamente come le bottiglie di Breg…).
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