Il Castello che fu del mitico editore è ora label
e superba vetrina di un’intrigante “collana” di cru
Colture e cultura: non è certo un link azzardato, come magari a prima vista potrebbe sembrare a chi – di colture, e segnatamente di colture nobili – non molto sa. Ma qui… beh, qui anche il meno sensibile degli interlocutori non potrebbe che, spalancati gli occhioni, far tanto di cappello. Di fronte, il vero panorama di Langa, le vigne nobili e preziose, cariche di gloria e storia, denominazioni celebri – e celeberrime sottozone – appesantite in un certo periodo (neppure troppo remoto, anzi) da uno zaino colmo di luoghi comuni, inciampi commerciali e qualche disgrazia accumulatasi nel tempo, e poi risorte a mo’ di liquida fenice negli ultimi trenta-quarant’anni, riportandosi di prepotenza tra le etichette d’élite del mondo, il posto che spetta a gran parte di loro senza dubbio. Qui, al centro, in posizione dominante, il Castello, fondamenta e mura duecentesche, e vicende complesse lungo i molti secoli, scanditi – oltre che da eventi, avvenimenti e proprietà diversissime – anche da inevitabili interventi architettonici. Al suo cuore infine, e a incantare quello di chi la visita, una delle sale di degustazione più insolite e affascinanti che possa mai capitare d’incontrare. Il tavolo dove ora son poggiati i calici abitava – prima di salir qua – a Milano, in via Biancamano 2. Lì, e poi qui, le sedie che accolgono ora i degustatori ospitarono a capotavola l’anfitrione e leader, Giulio Einaudi (sua creatura omonima la casa editrice che a Biancamano aveva casa, suo, un dì, questo Castello eletto a sede di riunione con gli scrittori/editor e archivio per originali e manoscritti) e via via, assisi insieme e attorno a lui, Primo Levi e Vittorini, Pavese e Calvino, e via così. Qui, sotto una teca, occhieggia, altro cadeau per chi entra, una copia con dedica autografa – datata 1925 – di Ossi di Seppia di Eugenio Montale. Gli scaffali che foderano la stanza, “firmati” dallo stesso illustre architetto che disegnò il tavolo, farciti di titoli e collane einaudiane, ospitano però anche “pezzi” d’arte di più tempi, stili, continenti frutto del contributo originale del castellano attuale, proprietario delle mura, del loro imitabile contenuto e delle vigne: quelle più direttamente annesse e alcune sparse – in modo estremamente meditato – sui territori langhetto e monferrino. Gregorio Gitti, avvocato milanese, ha portato qui la sua passione – oltre che per i vini di area e per l’epopea einaudiana – per pittori, scultori, designer: iniziando, a caso ma non troppo, da Bruno Munari, che firmò la scelta dei colori delle copertine delle raccolte della Einaudi, mentre creazioni sue fanno bella mostra adesso sulle pareti delle stanze adiacenti il “sancta” di Perno. Dove periodicamente poi sfilano, in mostre organizzate, altre opere di grandi: ultimissimo in ordine di tempo, Giulio Paolini. E altri seguiranno.
Quanto al coté strettamente vinoso: cantina a una manciata di chilometri dal Castello e a mezza costa del Castelletto, cru di tutto rispetto (e affaccio anche qui super, dirimpetto alla celebre Vigna Rionda). Già ultimata e attiva la parte operativa, la struttura ha lavori ancora in corso sul fronte hospitality (alcune stanze da foresteria, cucina, piscina a raso, terrazza), ma con un finale che già ora si indovina di grandissima presa. Dentro, per scelta del “deus” scelto da Gitti, Gian Luca Colombo, generazione dei quarantenni, enologo dalla visione aperta a 360 gradi ma poi di laseriana acutezza quanto a obiettivi e passione territoriale, tutto il fruibile del meglio dei contenitori d’elevazione: anfore (di puntigliosa qualità e certosinamente verificato gradiente d’ossigeno); cemento; legni grandi e medi (Stockinger), pochissimo piccolo per usi e prove speciali. In catalogo, su un totale (previsto a crescere, ma con misura per via di impianti e acquisizioni) di 60-70 mila pezzi all’anno:
un elegante Alta Langa (dedicato affettuosamente alla mamma del titolare, da poco scomparsa) 90% Pinot Nero e resto Chardonnay, già ora convincente e fine con i suoi 36 mesi di lieviti (è targato 2018) e i sentori delicati di piccoli frutti, ma previsto a crescere ulteriormente, in futuro, sia in tempi di elevazione che in ambizioni;
Una ficcante Nascetta ‘20 – la faccia “bianca” dell’azienda – dal piglio giustamente nervoso di chi di malolattica non ha sentito parlare e del “rieslingheggio” tipico del vitigno paesano resuscitato dall’oblio vuol mantenere tutte le stimmate gustolfattive, mixando nuance erbacee, esotiche e balsamiche;
un Dolcetto-Dolcetto (finalmente!!) che non scimmiotta vinoni e vinissimi, ma esprime il suo spirito antico e “merendero” (la “sinoira” locale, manco a dirlo) abbinato a contemporanea cura nei dettagli che lo fanno elegante (l’annata è la 2020);
le Barbera (cercate per ora alle radici della loro storia, ma apparentemente fuori zona, una Nizza e una Asti , ma una Alba seguirà sulla scorta di nuove vigne in attività);
un Nebbiolo Langhe 2019 di morbidezza accogliente, ma senza svenevolezze, stondato il giusto dall’anno e qualcosa di botte che affina le tensioni che il luogo d’origine (Gramolere, 450 metri di quota, esposizione fresca e seria) regala a uve e vino;
e finalmente i Barolo: tre, a partire da un Docg che di fatto è un Castelletto declassato (per lui son scelte alcune porzioni di quelle possedute nel cru, giocando sulle diverse quote e atteggiamenti) che matura 24 mesi nelle botti grandi di cui all’inizio; poi il Castelletto, che rivendica esplicitamente in etichetta la nobiltà esclusiva della provenienza, fermentato senza aggiunta di lieviti tecnici, fa a sua volta 18 mesi di botte per poi rilassarsi e distendersi nei grandi vasi di cemento; e infine una debuttante di lusso, la Riserva 2017, esordio da vera lady, formato magnum per un assaggio che, a dispetto dell’annata non esattamente facile, sciorina un velluto fitto di tannini orgogliosi ed educati al tempo stesso, e un timbro “autentico” da Barolo di lungo corso pur nella possibile bevibilità (dimenticata, a ragione, la riottosa intrattabilità, con annesso messaggio: vediamoci tra vent’anni… forse, di certi accanimenti tipologici del passato).
Come diceva il buon Totò, è la somma che fa il totale; e visto che la somma qui, considerate gioventù aziendale e lavori ulteriormente in corso, non può che attendersi in ragionevole crescita, Perno è uno di quei nomi che, per bontà e bellezza, meritano una bella nota con tanto di sottolineatura nel taccuino.
P.S. per non farsi, come si dice, mancar nulla: a un passo (alla lettera) dal Castello i visitatori troveranno anche dovizia di sirene gastronomiche ad attenderli, nella sala (misurata assai, prenotare…) e cucina di Gennaro Di Pace, calabrese creativo che ha messo fornelli, insegna e testa qui nel Monfortino. Dentro il paese poi, la Repubblica di Perno mette in tavola quel che le migliori trattorie moderne di Langa sanno offrire.
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