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La Toscana di San Felice in un tour virtuale tra Chianti Classico, Bolgheri e Montalcino

Una gamma che abbraccia il cuore del mondo enoico toscano di rango (Chianti Classico in più espressioni, Montalcino, Bolgheri).

Una struttura multitasking con dentro un magnifico country & wine relais.

Un impegno di sostenibilità che ha condotto l’azienda dentro un percorso complesso di certificazioni.

Una scuola di potatura (“La” scuola, quella di Sirk e Simonit) ospite della struttura e di fatto adottata (nata come strumento aziendale, visti valore e pregi è poi cresciuta fino a divenire strumento “erga omnes”, con 25 allievi l’anno e full immersion nelle stagioni topiche di  dicembre e maggio).

E, infine, un orientamento di ricerca che ha prodotto (e continua a produrre) lavoro di sperimentazione e recupero sui vitigni autoctoni regionali condotto in partnership con le Università di Pisa e Firenze.

Un lavoro materializzatosi in una collezione “in campo” estesa per due ettari, con dentro varietà ritrovate (tra loro anche tre perfette “sconosciute”, non riconducibili a parentele o discendenze, sotto il profilo genetico, e dunque ancora tutte da studiare). Ma soprattutto incarnatosi nel viaggio, già intrapreso e sviluppato con convinzione -largamente premiata dai risultati – di riproposta e valorizzazione del Colorino, ma soprattutto del Pugnitello, divenuto con 12 ettari dedicati vitigno principe (il re resta ovviamente il Sangiovese con 100 ettari propri, mentre la corte cosmopolita include i “bolgheresi” e la presenza “bianca” del Trebbiano da Vin Santo) del domaine con testa e radici nella antica Pieve di San Felice in Pincis.

Dietro, ovviamente, c’è la potenza di fuoco di un grande gruppo (Allianz), che ha scelto, sì, di attrezzarsi per un impatto globale sul mercato, ma puntando su forze risolutamente “local”. E affidando dunque la piena conduzione dei giochi legati alla produzione enoica a uno scout verace come Leonardo Bellaccini.

È lui dunque l’artefice e arbitro di una serie di new entry di alta gamma (presentate, come è quasi regola ultimamente, in call conference con assaggio condiviso in remoto) che ha preso le mosse da Il Grigio 2016; Chianti Classico Gran Selezione e festival della ricerca aziendale sui piccoli autoctoni: 20% in totale nel blend col Sangiovese, e dentro Ciliegiolo, Malvasia Nera, Pugnitello, Mazzolo. Per un risultato (pur di annata definibile classica) già disposto alla beva, disteso, sapido e profumato. Con strada, ma già in pieno slancio di piacevolezza.

vigneti Poggio Rosso

Altro discorso per il Gran Selezione numero uno, il Poggio Rosso 2016, anche lui secondo calendario ma (100% Sangiovese di zona nobilmente tipica) in ritardo d’un annetto almeno rispetto alla prontezza del cuginetto figlio di più uve. Da aspettare, serbare, corteggiare, ma poi godere, e parecchio.

Sconta un po’ il confronto il Bolgheri Bell’Aja, vuoi per millesimo (2017) vuoi per novità d’impresa (zona ed etichetta sono state le più recenti a entrare nel plafond di San Felice). Poggiato sul Merlot (95%) ne interpreta con diligenza i dettami, sente ancora un filo il legno d’elevazione, riempie bicchiere e palato, ma paga un piccolo prezzo di concessività e arrendevolezza. Da riassaggiare.
Fa invece centro pieno il Pugnitello: protagonista 100%, targato 2016, ha profondità e ampiezza, personalità e tannini di gran classe. Merita attenzione sempre più vasta e fiduciosa. E alla cieca può dir la sua con un tot di forse più pretenziose espressioni di territorio.

Anche nel Vigorello 2016 (pioniere assoluto dei fuori denominazione, quelli poi divenuti con la mediazione parkeriana e anglofona “supertuscan”) c’è un 30% di Pugnitello, a ribadire quanto brand e Bellaccini puntino sul loro cavallino allevato in casa. A far corona stavolta c’è il mix Bordeaux (Cabernet Sauvignon, ancora Merlot ma d’altra quantità e pasta, e tracce di Petit Verdot). Il risultato è convincente subito e in prospettiva, armonioso e piacevole (e riuscita riprova della teoria cara all’indimenticato Giacomino Tachis secondo cui avendo materia giusta e, ovviamente, capacità e gusto, fare un buon vino da “mescolatore”, come lui stesso scherzando si definiva, è meno arduo che partendo da un solo vitigno).

Ultimo, per ordine d’assaggio e annata, il 2015 Campogiovanni, Brunello che si iscrive dichiaratamente e orgogliosamente al filone di tradizione: tre anni in legno non piccolo (neanche grandissimo, ma ampiamente medio facendo la conta tra botti e tonneau), nessuna voglia di vaniglia o “americanizzazione”. In questo caso però è il millesimo caldo e pieno, incrociato con l’area (Sant’Angelo in Colle è nella faccia certo meno austera e fredda della “piramide” ilcinese, pur avendo al suo interno fasce e location di pregio assoluto) a spingere verso una suadenza abbastanza evidente e una “legagione” dei tannini più orientata del solito alla morbidezza. La beva (larga e espansiva) ne scaturisce allora più immediata e agevole, gratificando chi, anche nel Brunello giovane, cerca comunque questa inclinazione.

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