Scherzò su se stesso quando, nel 1963, diede alle stampe il romanzo autobiografico Il voltagabbana. Davide Lajolo narra nel libro la sua vita e spiega le ragioni dell’abiura al fascismo dove era militante e vice segretario generale del partito: dal carattere turbolento e avventuroso si fece irretire dalla retorica di chi prometteva un radicale cambiamento a favore dei più poveri. La famiglia viveva di stenti, per farlo studiare oltre la terza elementare che elargiva la scuola del paese era costretta a sacrifici, andavano avanti esclusivamente col prodotto delle vigne di pertinenza, e se la vendemmia fosse andata male… addio alla possibilità di continuare gli studi fuori dal collegio dei Salesiani. La miglior vigna era quella anche più cara a Davide, il bricco di San Michele, dove si recò, preferendola al cimitero, l’ultimo giorno di visita al luogo natio per la morte del padre.
Partecipò alla guerra di Spagna a fianco dei nazionalisti, coi Volontari del Littorio. Ricordi dell’esperienza iberica sono la trama del suo primo libro pubblicato nel 1938: Bocche di donne e di fucili. Fu il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, che superò la malattia, “la fillossera della gioventù” come amava scrivere, abbracciando la lotta partigiana attorno alle colline di Asti, col nome di battaglia di Ulisse, lo stesso signor “Nessuno” col quale firmò successivamente i suoi corsivi da giornalista. Poi la direzione del quotidiano L’Unità di Milano e l’ascesa con il P.C.I. che lo porta alla carica di deputato nel 1958, tra i militanti più fermi grazie alla tempra e al carattere di cui era provvisto, e l’incarico di Questore della Camera dei Deputati per un quinquennio nel 1963. Nel 1956, in viaggio assieme a Mauro Scoccimarro, si reca a Pechino, e incontra un sorridente Ciu En Lai. Chiede e ottiene di intervistare Mao Tze-Tung. Il rivoluzionario gli si rivolse chiamandolo jeunesse, e inizia chiedendogli notizie dello stato di salute di Togliatti. Meriterebbe esser letta per intero l’intervista per comprendere appieno la personalità di Lajolo, capace di dissentire senza alcun timore con Mao, sotto lo sguardo preoccupato di Scoccimarro che si era anzitempo e inutilmente raccomandato, circa la difesa di Stalin morto tre anni prima e appena pesantemente criticato dal XX Congresso del PCUS.
Del 1960 è il libro più famoso, Il vizio assurdo, la biografia di Cesare Pavese col quale era legato da profonda amicizia, e che ha per titolo un riferimento all’auto-annientamento depressivo di cui soffriva lo scrittore. A tal proposito, nel 1954 Lajolo incontra Hemingway all’hotel Danieli di Venezia, pochi mesi prima che ottenga il Nobel per la Letteratura. Come viene a sapere della profonda amicizia con Pavese l’americano lo invade di domande, quasi un’aggressione dovuta alla sua endemica curiosità, mentre si gratifica con un paio di bottiglie di whisky. “Più ne assumeva e più diventava lucido”, sostenne Lajolo. Ciò che più interessa e addolora Hemingway sono i motivi del suicidio, ritenendo che gli amici di Pavese non gli siano stati sufficientemente vicini, e alla fine lo congeda con una frase apertamente colpevolizzante: “Pavese non si doveva suicidare. Portati dentro la tua parte di rimorso.” Chissà se l’autore di Fiesta pensò la stessa cosa dei propri amici quando, sette anni più tardi, si concesse la medesima fine… Nota è la controversia di Lajolo su Beppe Fenoglio: fu uno dei principali detrattori dello scrittore albese, sulle pagine del quotidiano comunista, a proposito della rappresentazione della Resistenza fornita nel romanzo I ventitré giorni della città di Alba, salvo ravvedersi negli anni ’70, con la seconda celebre abiura della sua vita. Nulla di cui vergognarsi peraltro: apparteniamo alla schiera di chi pensa che non essere irrevocabili e palesarlo con coraggio, forza che di certo a Lajolo non mancava, sia un ingente valore. Nel 1983 è uno dei cinque finalisti al Premio Strega per il suo Il merlo di campagna e il merlo di città, che forse meritava il successo, senza nulla togliere a Mario Pomilio vittorioso del principale riconoscimento della letteratura italiana. “Il mio è un povero paese di contadini. Ognuno con le sue quattro, dieci, quindici giornate di terra dove il bisogno e la miseria hanno sempre fatto da padroni”, racconta all’inizio proprio in Il voltagabbana. Questo paese è Vinchio di cui Lajolo è il nativo più celebre, e che ricorre spessissimo nelle sue opere: un legame di sangue con le origini contadine degno di ogni abitante del Monferrato.
“Qualunque sia il tuo destino, la tua chiamata” gli diceva il padre “ricordati che sei uscito di qui. Ci sono fedeltà che non si possa (sic) tradire. Quella della terra è più importante della fedeltà al padre. Nella terra è la vita e il fiato di tutti quelli che hanno lavorato prima di noi. La terra è un richiamo che non tradisce.” Si tratta di un comune dell’astigiano con meno di 600 anime, posto a 269 metri d’altitudine, e proveniente da un antico insediamento, prima celtico e poi romano. Documenti del XI secolo attestano che un tempo la località si chiamasse Viginti, ovverosia venti, le miglia romane che lo separano da Alessandria. Se si unissero le località di Rocchetta Tanaro, Agliano e Nizza Monferrato in un ipotetico triangolo equilatero, Vinchio si troverebbe proprio al suo centro. “Vinchio è il mio nido. Ci sono nato nella stagione del grano biondo. Quando ritorno qui sono felice e mi libero di tutto. Questa è la mia terra, è come una donna che mi piace tanto, che sento mia e che nessuno può portarmi via”, ancora Lajolo con l’associazione donna e natura che si accomuna e abbiamo nelle poesie del suo amico Cesare Pavese. Ritrovare i luoghi descritti nelle opere di Lajolo, le terre magre e difficili, i pendii spiccati dei colli, i declivi impervi, nel rigido clima di metà inverno, con i filari del suo “rubino di Vinchio”, vitigno più volte menzionato, ricoperti di brina e il suolo fangoso indurito dal ghiaccio, restando avvolti da un’aria frizzante e una nebbia degna del blasonato clima scozzese, che consentiva di tanto in tanto la visione di una casa bianca, un campanile, un capanno, durante la visita ai vigneti della cantina di Vinchio Vaglio, è stato davvero emozionante per chi aveva letto i suoi libri: doveroso ci è sembrato fare dello scrittore il preambolo del racconto.
“Il nido della Barbera” nasce nel 1959 come Cantina Cooperativa dei paesi di Vinchio e Vaglio Serra. Furono gli stessi 19 soci iniziali a prendere parte alla costruzione degli edifici, e uno dei fondatori fu proprio la famiglia Lajolo. Oggi i conferitori da queste colline, che a partire dal 2014 sono patrimonio dell’UNESCO, sono 195 e conducono 500 ettari di vigneto, di cui tre quinti destinati a Barbera, ma il copioso numero non deve trarci in errore: impegno, spirito e pervicacia sono i medesimi degli inizi. Ciò consente una produzione annua che si aggira attorno a 850.000 litri di prodotto in bottiglia. Per statuto la Cooperativa prevede che il Presidente e il Vice Presidente siano uno di Vinchio e uno di Vaglio Serra, a testimonianza del superamento di una antica rivalità tra i due comuni, e in un Paese dove si persevera nello scontro violento (non più solo domenicale) fra campanili calcistici, sarebbe un esempio da seguire. Attualmente il presidente è il vinchiese Lorenzo Giordano e il vice è il vagliese Cristiano Fornaro, sindaco per tre legislature del suo comune.
La direzione della Cantina è invece affidata al giovane e dinamico Marco, figlio di Lorenzo Giordano. Export Manager è la gentilissima “nimese” Tessa Donnadieu che accompagnandoci nella visita ci ricorda, grazie al suo accento, che il confine con la Francia non è così distante. L’enologo è l’esperto Giuseppe Rattazzo, diplomatosi presso la Scuola Enologica di Alba (che ha preso il testimone dal nome storico di Giuliano Noè), affiancato dal giovane Matteo Laiolo, con la “i” semplice, quindi non imparentato con Davide. Qui i vigneti possono essere anche molto antichi: ve ne sono alcuni di oltre 50 anni fino a giungere a toccare il centinaio! Tant’è che dal 13 al 19 di marzo Vinchio Vaglio parteciperà con due vini, il Vigne Vecchie Barbera d’Asti Superiore DOCG e il Vigne Vecchie 50 Barbera D’Asti DOCG (il primo nato nel 1987, il secondo nel 2009 in occasione dei festeggiamenti per i 50 anni della cantina) alla Old Vine Wine Week di Londra, organizzata dalla The Old Vine Conference. Questa associazione senza fini di lucro, fondata in Inghilterra nel 2021 per opera di professionisti decennali del vino quali Leo Austin, Sarah Abbott, e Alun Griffiths (gli ultimi due hanno il prestigioso titolo di Master of Wine, sono 414 gli insigniti nel mondo ad oggi), ha lo scopo di salvaguardare e sostenere la promozione delle cantine del pianeta che abbiano continuato a coltivare vecchi vigneti dai quali produrre vini di qualità. Due Barbera così differenti fra loro: Vigne Vecchie Barbera d’Asti Superiore DOCG, utilizza vinificatori orizzontali con rotomaceratori Gimar Selecompact, e successiva maturazione da 12 a 16 mesi in barrique e per l’eccedenza in tonneau da 500 litri, adoperando principalmente botti nuove; poi ancora un mese di sosta in vasche di cemento e passa in bottiglia dove rimane per un anno e mezzo ad affinare, prima della commercializzazione; Vigne Vecchie 50 Barbera D’Asti DOCG uguali uve di provenienza e vinificazione ma allo scopo di enfatizzare i profumi primari e le caratteristiche della migliore Barbera, rimane per circa un anno in vasche di acciaio e di cemento, e poi affina in bottiglia per un altro anno prima della commercializzazione. Per i prodotti ottenuti dalle vecchie vigne non occorre effettuare diradamenti, perché qui si hanno rese di 50/70 quintali per ettaro, al di sotto del disciplinare che ne prevede 90. Inoltre le vecchie vigne producono naturalmente dei grappoli di dimensione inferiore, e durante la vinificazione ciò si traduce in una maggior presenza (ma non in percezione) di tenore alcolico e acidità. Quindi principalmente Barbera (meno radicata in Italia rispetto al tempo dei racconti di Lajolo, essendo passata da oltre 80.000 ettari di superficie vitata del 1970 a poco più di 18.000, secondo una fonte ISTAT del 2017) ma non solo: sono coltivati altri vitigni tipici del territorio, Arneis, Bonarda, Brachetto, Cortese, Dolcetto, Freisa, Grignolino (dalle cui uve Lajolo racconta che si produceva un vino chiamato Pistoletta, forse per il carattere di immediatezza che aveva), Moscato (altra cara uva che compare nei suoi romanzi), Nebbiolo, l’incrocio Albarossa (Nebbiolo x Barbera) e non mancano alcune varietà internazionali, ritenute adattabili a queste colline, come Chardonnay, Pinot Nero (componente per l’80% del metodo classico brut Alta Langa che abbiamo trovato molto interessante), Sauvignon, e Viognier. Il termine “nido” adoperato da Lajolo diventa una epifania per l’azienda: grazie all’acquisto di una porzione di bosco attiguo alla cantina e confinante con la Riserva Naturale della Val Sarmassa, e al ripristino dell’antico sentiero a ridosso del quali sono stati aggiunti tavoli, fontane e proprio dei “nidi”, dei capanni di salice intrecciati a mano, a proteggere chi vi è all’interno dal sole e dal vento, si è creato un percorso naturalistico intelligente, volto alla tutela e conservazione del patrimonio che circonda i vigneti.
Ma veniamo, finalmente penserà qualcuno, alla degustazione dei vini proposteci. Sotto la guida del Presidente Lorenzo Giordano, e dell’enologo Matteo Laiolo abbiamo avuto modo di assaggiare sei declinazioni della Barbera in purezza: Barbera d’Asti Sorì dei Mori 2022, prodotto in 80/100.000 bottiglie, con due mesi di affinamento in acciaio e cemento; fragrante e croccante, bevibilità e presenza di acidità varietale, frutti rossi (ribes) in evidenza.
Barbera d’Asti Superiore I Tre Vescovi 2021, qui l’anno passato in botte da 75 ettolitri si percepisce, e oltre a trovare note floreali abbiamo frutta di bosco e soprattutto, a nostro avviso, la melagrana. Chiusura finale pulita e motivante a nuova beva che si integra con l’identità del vitigno. Ci soffermiamo maggiormente su questo vino rispetto ai successivi, certamente più complessi e appaganti, premiandolo con una “menzione speciale” per una ragione a noi cara: è molto più semplice ottenere struttura più ampia limitando la produzione, ma questo è il vino maggiormente realizzato dalla Cantina con tiratura da 250/300000 bottiglie all’anno, un dodicesimo rispetto ai vini di punta assaggiati.
Barbera d’Asti 50 Vigne Vecchie 2021, ne abbiamo già parlato, no legno in maturazione e con finalità d’ottenere la “Barbera di una volta”. Profondo, quasi inchiostrato, con frutti rossi e note floreali in una beva fragrante supportata dall’acidità.
Nizza Laudana 2020. A partire dalla vendemmia 2014 la sottozona Nizza diventa Docg. Anche qui vinificatori orizzontali, poi matura per oltre anno in barrique, nuove al 15%, e il resto di secondo e terzo passaggio e botte grande. Vino corposo e rotondo, percezione lievemente più calda del previsto probabilmente a causa dell’annata, vinoso con una gradevole presenza di una matura ciliegia.
Barbera d’Asti Superiore Vigne Vecchie 2019, anche di questo vino abbiamo già parlato, si tratta della “memoria” della Barbera di zona. Annata in prospettiva molto interessante, con acidità presente, e integrazione del legno con la frutta rossa (ciliegia). Lasciato un decina di minuti nel bicchiere i tannini diventano delicati e setosi.
Nizza Riserva Sei Vigne Insynthesis 2019. Un 2011 assaggiato in precedenza e in un altro contesto ha reso giustizia alla longevità del vitigno. È il vino di punta della Cantina. Le sei vigne iniziali ora sono in realtà tre, nasce nel 2001 e non viene prodotto in tutte le annate (per essere tassonomici finora abbiamo avuto la 2001-2003-2004-2006-2007-2009-2011-2015-2016-2017-2019-2020, certamente no la 2018 e 2023, e sulla 2021 e 2022 si sta operando una riflessione). Qui c’è un diradamento delle uve al 50% e la fermentazione alcolica con macerazione dura circa 10 giorni. Matura in barrique, per l’80% nuove, per almeno 12 mesi, poi un mese in vasche di cemento e altri 24 mesi di affinamento in bottiglia. Elegante, complesso, corposo e setoso, presenta note tostate e di frutta che diventa sotto spirito (ciliegia Ferrovia), bacche di vaniglia e spezie dolci (cannella).
Didattico è stato l’assaggio dei tre bag in box della Cantina, Le Tane, De Viginti, Ulisse (in onore al soprannome di Davide Lajolo), dei Piemonte doc, in un crescendo di grado alcolico di confezionamento (13%-13.5%-14%) e di struttura del corpo. Vini accessibili e corretti, con produzione complessiva tripla di ciò che avviene in bottiglia, e che hanno il grande merito di convogliare il vecchio cliente dello “sfuso”, o il ristoratore che proponga il “vino della casa” ad una fruizione più seria.
Ci si cimenta anche con un Vermouth di Torino rosso, denominato Del Presidente, ottenuto dalle uve delle Vigne Vecchie, quindi con grande materia nella beva che risulta piacevole nella sua accezione moderna, morbido, presenza amaricante misurata, e forza alcolica contenuta; e con un Gin Del Presidente, secco con presenza di ginepro e rosmarino che all’assaggio si ammorbidisce in note profumate, scented direi, e protagonismo di agrumi.
Infine, a chiusura di un cerchio, si ritorna da dove ha avuto inizio il nostro racconto.
Abbiamo fatto dono, con la giusta dose di emozione, di un libro (oramai) appartenuto alla nostra collezione, alla dottoressa e scrittrice Laurana Lajolo, figlia di Davide: Come e perché che proprio di Vinchio racconta lo scrittore. L’esemplare aveva una dedica autografa, e abbiamo ritenuto giusto tornasse a casa in Monferrato, anziché restar confuso con altre migliaia di volumi negli scaffali di una dimora romana.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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