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Giro del Mondo con il Lambrusco. Carnal Roma © Francesco Vignali Photography

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Giro del Mondo con il Lambrusco, un vino che ha oltrepassato l’ambito regionale

Il Lambrusco in tournée. In forze, con truppe variegate quanto il suo storico assortimento di territori, tipologie (13 varietà d’uva…), stili e modalità produttive, ma affiatate e in gran forma.

Titolo, “Giro del mondo”. Con il Lambrusco ovviamente. Ed è una bella storia. Perché da tempo “i” Lambrusco (se c’è un vino per cui il plurale è preferibile, per quanto si diceva sopra è questo)  hanno oltrepassato il limite presuntivo che li teneva accerchiati nell’ambito di un passo eminentemente regionale, allungato a suo tempo per promettenti avventure americane e un tuffo rutilante nel mondo della Formula Uno, ma presto e abbastanza bruscamente regredito nella dimensione più familiare e normale. Ora, e non da oggi ma da un pezzetto, la corrente è di nuovo invertita. E aperta al viaggio. Ma con misura diversa, programmazione, attori arguti e consapevoli, e qualità media indiscutibilmente e palesemente in continua e ulteriore crescita.

A Roma la tournée – affiancata dalla rodata pilotina Gambero Rosso – sceglie di sbarcare in un pezzo di mondo gastronomico davvero peculiare: il Carnal di Roy Caceres, sapida ibridazione della sua America centromeridionale con materie italiane – e soprattutto laziali – e refoli di cultura dei sapori, appunto, ecumeniche, senza confini o pregiudizi. E le nozze si rivelano subito un test efficace e centrato per la poliedricità dell’offerta che Sorbara, Reggiano e Castelvetro (le Doc presenti) sanno sciorinare.

Sei i vini degustati, dalle entrée al dessert. Cominciando dal “Dei Tenori” di Tenuta Campana, un rosato targato Sorbara figlio di un’azienda ampia e articolata (22 ettari a vite, ma altri 160 d superficie propria) che gioca su tutti i profumi e i colori degli  agrumi, prima di virare su freschezze di piccoli frutti e semi di melograno. Pulito, arguto, divertente e divertito.

Passo avanti, ma restano nel mood e nella denominazione, con il Rosé del Cristo di Cavicchioli. Label nota, anzi di più considerando la fama media (luminosa ma circoscritta ancora) dei “piccoli” della denominazione. Qui quattro generazioni in fila, articolazione, impatto di altro volume e molto deciso. Come i sentori e sapori del vino, dalla frutta piccola passa alla medio grande, cambia colore (sono note gialle a prevalere) e chiude su ricordi intensi di frutta secca.

Gira decisa la ruota (e si cambia Doc e scenario) con il Lombardini Brut, Reggiano prodotto dalla omonima Cantina. Che non è (direbbero i francesi) una azienda récoltant, ma uno storico manipulant lavorando da quasi un secolo uve e mosti altrui. E la sapienza dell’esperienza affiora evidente nella combinazione di morbidezze amichevoli e “nettoyage” finale, leggermente erbaceo.

L’avvolgenza, vellutata ma senza cedevolezze ridondanti, è da sempre una “marca” del Lambrusco che segue, il titolato e ben noto Concerto di casa Medici, uno dei Reggiano capaci di ormai da anni di meritarsi le luci del proscenio. La piccola sorpresa – se di sorpresa si può parlare – è che, in evidente sintonia con alcune delle tendenze più attuali del gusto dei consumatori evoluti, il Concerto ha… lievemente ridotto il protagonismo della nota suadente degli archi – per stare nella metafora musicale che il nome del vino evoca – a favore di fiati e percussioni. Pieno il frutto, scuro e intenso, seza spigoli ma asciutto e incisivo, preceduto e rifinito da note officinali molto interessanti (e sfidate a dovere da un piatto che vedeva protagonisti anguilla laccata, melograno, funghi e tortila al mais, per un totale di complessità niente male).

Giro del Mondo con il Lambrusco. Carnal Roma © Francesco Vignali Photography

E a seguire un altro Reggiano, quello di Lini 1910, racconta con la sua voce e completa il quadro di un savoir faire e un’ambizione (che la casa, antesignana e maestra del metodo classico sulle uve bandiera del territorio e non solo, ha sempre orgogliosamente rivendicato) assolutamente appropriati e giustificati. Il Labrusca, che mette in etichetta come stendardo il nome antico della sua uva, è il ritorno alle radici profonde: il vino della storia e delle origini fatto però con tute le accortezze e i saperi accumulati da generazioni (quella di Alicia, oggi in campo e ambasciatrice nel mondo della azienda della sua famiglia, li ha per così dire cumulati) . Salamino in larghissima parte, con un “baffo” di Ancellotta a temperare, va dritto al punto, preciso, dritto e impattante, per poi spiegarsi però tra incroci di frutto sapido e succoso e incidenza tannica ben misurata disegnando una beva che chiama alla grande la successiva.

Giro del Mondo con il Lambrusco. Carnal Roma © Francesco Vignali Photography

Finale Con un Grasparossa, il Castelvetro Doc “Vini del Re” di Cantina Settecani. Che, pure alle prese con una mission davvero ai limiti del “impossible” (meringa, macadamia, limone, basilico: il dessert modernissimo ma certo non semplice di Caceres) scantona ignorandolo ogni ostacolo di abbinamento e si prende il suo spazio con un sorso di schietta, schiettissima dimensione, indiscutibile tipicità e profondi ricordi di frutto “profondo rosso”.

 

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