Viaggio nelle diverse espressioni territoriali
dell’uva “rubata” ai francesi dal conte de la Tour
Che il Friuli, enologicamente parlando, sia un mosaico l’abbiamo ormai ben chiaro tutti. Loro si definiscono un’orchestra. Forte di 106 elementi (leggi: vitigni) e con una media di 13 referenze diverse per azienda. Uno di quei posti insomma dove il “cannibale”, il pressoché eponimo (il Montepulciano in Abruzzo, il Sangiovese in Toscana, il Nebbiolo in Piemonte, il Cannonau in Sardegna) per capirci, non c’è. Cresce la Ribolla, quella con il trend più inclinato in su. Sventola la bandiera dell’ex tocai oggi Friulano. Ma nessuno domina.
E il Sauvignon? Beh è il vino della domenica. Quello inteso come di lusso, da ospiti a pranzo, perché – malgrado ormai qui sia di casa da oltre 150 anni, ha sempre conservato per i vinaioli indigeni una certa allure da straniero elegante.
Alla base, c’è la storia – fantastica – del suo approdo qui. A portarlo fu quell’autentico, appassionato pioniere del conte de La Tour (nome ben noto agli enofili, così come quello di Villa Russiz: la proprietà dove tutto avvenne).
Fu lui, innamoratosi di vino e relativo vitigno all’Expo di Parigi, a portarlo rocambolescamente a casa (l’export dalla Francia era severamente vietato) nascondendo le piante negli enormi mazzi di fiori che riportava come cadeau alla signora contessa…
Oggi, l’illustre clandestino accasatosi alla grande (da Rauscedo, cioè da qui, è poi nato il clone R3 che “è” il Sauvignon da noi) vanta 1385 ettari vitati (circa 1600 invece la Ribolla, per dare il senso delle proporzioni). Ma in aree specialmente “fedeli” come il Collio copre il 22% del totale vitato, contro (ad esempio) il 14% dei Colli Orientali.
L’espressione friulana media (che è un’astrazione, visto che come vedremo le cose mutano e molto da zona a zona e tra le varie denominazioni corrispondenti) è comunque meno ancorata alla freschezza del clima (condizione sicuramente congeniale al vitigno) e ben più decisamente legata all’effetto delle escursioni termiche, sensibili e importanti.
La ricerca di bouquet è meno arrampicata sulle pirazine (le sostanze aromatiche che danno le sensazioni più immediatamente riconoscibili anche dai profani, ma non per questo le più pregevoli, al vino, segnalando anzi in alcuni casi esasperati dei difetti di maturità dell’uva) ed è più puntata sull’armonia.
L’uso del legno, che pure c’è, è infine tutto sommato limitato.
Ma avventuriamoci, dunque, nel viaggio dentro il mondo sfaccettato dei Sauvignon della regione, passando attraverso quattro sue articolazioni.
Castelvecchio Carso Sauvignon 2019
Il primo vino sa di bora e di terreni unici, di lavoro duro e accortezze (si sa, il Carso è così) estreme quanto necessarie. Varietale e territoriale com’è, il Castevecchio è dunque un Sauvignon “retard”, da attendere oltre le iniziali note appena verdi (ma fini e non scomposte) e gustare già per i fruttati compositi (dentro anche una vena esotica, ma sempre giocata su bianco e verde Kiwi, più che sul giallo). Il finale, dopo l’assestamento termico nel calice, parla già di piacevolezza e complessità.
Feudi di Romans Isonzo Sauvignon 2019
Cambi mesoclima, terreno, e subito svolti. La scheda gusto-olfattiva è tutta diversa. Il naso torna, per così dire, “a casa” sulle classiche note di peperone, e foglia di pomodoro, alleggerite e “tirate” da nuance di menta e salvia, mentre a far da fondente sono – qui sì – note più solari e pastose di albicocca e ananas. Diverso per peso e anche impatto al palato, più liscio e rotondo.
Specogna Colli Orientali Sauvignon 2019
Color giallo intenso, profumo varietale, forte, elegante, con note di agrume (più pompelmo che limone o arancia), ma anche pennellate di verde composite di verde, che alterna e associa la classica foglia di pomodoro a curiose, intriganti memoerie di bacche e di cespuglio odoroso. Ha buona struttura, impatto appagante, ma ravvivato da una giusta croccantezza. Davvero buono (e, attenzione: non è neanche il Sauvignon di punta di casa…).
Tunella Colli Orientali Sauvignon Colmatiss 2018
Cambio d’annata, cambio di modalità produttive (legno grande che entra in scena qui come mezzo di fermentazione prima ed elevazione poi) e cambio anche di livello di ambizioni. Il Colmatiss flirta con le erbe aromatiche a mazzetto, ma poi vira su sensazioni più variegate e complesse, dalle spezie ai ricordi (organici a titolati Sauvignon di altre latitudini) di pietra focaia. La bocca – di medio impatto, senza esagerazioni – si mantiene sufficientemente tesa e fresca, sostenuta anche da una buona vena salina che ne fa un vino da “gusto” puro, ma anche e soprattutto gastronomico.
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