Alcuni mesi – solo un paio più del previsto, un’inezia a Roma – di stop forzato e di lavori. E, nell’ambiente, di grande e inevitabile curiosità su quale sarebbe stato l’esito dell’operazione di restyling integrale della gloriosa Pergola del Cavalieri Waldorf Astoria, regno del sessantunenne “romano de Friedrichshafen” Heinz Beck, lo chef che ha saputo far ascendere, nell’arco di trent’anni tondi di lavoro (e ricerca, studio gastronomico ma anche nutrizionale, e capacità di organizzare team di sala e cucina di assoluto valore) questa tavola tra le stelle fisse, le sicurezze senza scosse del firmamento gastronomico nazionale ed europeo.
Uno studio specializzato, il Jouin Manku (i cognomi dei due titolari e soci Patrick e Sanjit), già utilizzato da ditte di un qualche spessore come Van Cleef & Arpels, Alain Ducasse, Pierre Hermé, ha messo a punto il progetto. Che ora è stato finalmente svelato. Con annessa narrazione – coordinata da Federico Quaranta, il Fede del DECANTER radiofonico e decine di altre cose, di del processo seguito e delle scelte fatte,
In primis da parte degli autori della nuova sala. Ha spiegato mr. Jouin che, anzitutto, lui e il suo partner sono innamorati di Roma. Dunque gioia subito. Poi impegno. E dialogo. Per una realizzazione fatta in totale dialettica con Heinz Beck partendo dalla conoscenza di un posto che per trent’anni è stato perfetto per quel che doveva essere. Dunque più parole scambiate che disegno, per un bel po’ di tempo. <E – ha aggiunto Sanjit Manku – è stato come lavorare in un’istituzione. Cercando al tempo stesso di creare un ponte – diverso ma altrettanto solido – tra il cibo che si fa qui e il desiderio dei clienti, in sincronicità con i ritmi e i contenuti dello scrigno di Heinz.
E lavorando come “medici” dello spazio per esaltarne il rapporto con il corpo di chi lo occuperà. Abbiamo cercato poi il colore di Roma. E abbiamo scelto il terracotta dei tetti e muri qui da migliaia di anni. Abbiamo scelto il travertino, la pietra locale, usandola in modo contemporaneo. E così il legno dei pini che qui dominano. Materie del passato, del presente, del futuro. Passeggiando attraverso la storia, che è un privilegio di Roma. Integrando anche i quadri del ‘700 e i vasi di Gallé parte della collezione della casa. Proprio come pensiamo faccia lo chef nell’imbastire i suoi piatti: che hanno dentro passato, presente e futuro a loro volta>.
<Era un po’ che l’idea del cambiamento girava, qui. Ma per renderlo possibile è servita anzitutto la complicità della proprietaria, la signora Fiamma Terruzzi, quella del direttore Alessandro Cabella e quella materiale di tutta la squadra guidata da Simone Pinoli in sala e di Marco Reitano per la cantina. Che ringrazio tutti. Abbiamo visto e bruciato cinque progetti prima di incontrare nel 2019, e innamorarci, gli autori che vedete qui. Cinque anni di gestazione, quindi: ma ci stavano tutti. Ogni pezzo qui è custom, dalle sedie ai piatti, al singolo vaso. Ed è stata dura. Quattro mesi fa non avevamo ancora le sedie per il terrazzo.
Disegnate, realizzate, arrivate. In tempo. Uno dei miracoli del percorso. Fatto insieme, che è la cosa più bella. Anche da raccontare ai nipoti. Perché il posto che abbiamo creato speriamo sia quello dei prossimi trent’anni. Senza pensare alle mode. Che arrivano e passano. È la stessa cosa che ho fatto in questi trent’anni in cucina. Cercando modelli di riferimento. Non immagini futili. E il più importante è sempre la natura. Siamo noi umani lo 0,01% della biomassa totale.
E dunque la rotta passa attraverso il rispetto del 99,99 e la continuazione del lavoro già avviato sul contenuto dei piatti – biodisponibilità degli alimenti, quantità di nutrienti forniti di conseguenza – perché sia il più buono possibile, a tutto tondo, per il nostro organismo; per quella parte dello 0,01% che viene qui a cercare sapore, wellness, pace. E a cui vogliamo dare una serata meravigliosa, ma anche una mattina dopo meravigliosa. Grazie a quel che ha vissuto, mangiato, bevuto>. Tra cui un piatto che sembra esternamente un sanpietrino e dentro è una sinfonia di consistenze e lavorazioni dedicata al pomodoro e battezzato “0,01” appunto. Ed eletto a simbolo della reintegrazione nel ciclo naturale dell’apparentemente marginale (il sampietrino abbandonato). E uno dedicato alla via Appia, la strada <che va verso Sud, il mondo dei sapori più forti>, ha concluso Beck.
Cambiate anche le tecnologie e i materiali in buona parte della cucina. Con fortissima attenzione al sostenibile e importante apporto del fotovoltaico.
Ed ecco dunque le immagini, e a corredo l’impressione ricevuta, che è delicata e insieme persistente. Molto “altra” ma insieme sintonica con l’onda di un passato al di là di ogni dubbio felice. L’ultimo – volante – giudizio su sedie e tavoli di perfetta ergonomica “accoglienza”. Il resto… alla prima, prossima cena….
Aggiornamenti continui sul mondo dell'enogastronomia