Otto più due, quanto fa? Risposta ovvia per tutti, anche per un “remigino” delle elementari. Meno però se addendi e totale si riferiscono alle annate dell’ultima decade in Champagne: 2002, il classico che tutti vorrebbero in casa; 2008, straordinario per forza ed equilibrio. Poi arriva la 2010 e…
L’attesa per questo “turning point” da vendemmia – avrete capito tutti – ingrata, complicata e per certi versi enigmatica in casa Dom poi era doppiamente acuta: per la successione non facile – e inevitabile confronto – ai millesimi di cui sopra, ma anche perché poi, in fondo, la dinamica della transizione (pur quanto mai concorde e felice, da nocchiero straordinario a pupillo da un pezzo primo ufficiale in tolda) tra Richard Geoffroy e Vincent Chaperon era ancora decisamente fresca.
Vincent Chaperon
Dunque, ecco la doppia sfida: restare ai livelli cui il brand ci ha abituati, mantenendo al contempo per quanto possibile la dinamica di produzione (il Dom si fa sempre e con tirature che fino a una quindicina d’anni fa sarebbero state ubbia) innestata da Geoffroy, l’uomo che ha via via cambiato il motore alla macchina (o, meglio, lo ha moltiplicato, un po’come è successo nel mondo dell’auto con l’ingresso dell’ibrido).
Ma torniamo un attimo in vigna per capire com’è andata all’epoca dei fatti, con un andamento climatico iniziato e proseguito fino a estate inoltrata nel modo che (quasi) tutti oggi in fondo si augurano, senza apici acuti di calore cioè, e senza anticipi forzosi nel ciclo vegetativo, promettendo un’edizione di Champagne fresca, tesa, e in fondo un po’ “antica”, per poi invece annegare, da Ferragosto in poi, sotto un autentico martellamento di bombe d’acqua.
Il seguito è stato, ovviamente, una battaglia a coltello contro le conseguenze del semiannegamento.
Fatti i conti, il male minore è parso anticipare il grosso della vendemmia per salvare il salvabile dai rischi di muffe assortite. Portando a casa anzitutto lo Chardonnay, visto che la quantità di Pinot Noir “eleggibile” risultava già in prospettiva piuttosto compromessa.
Pinot Noir
In compenso, la somma tra anticipo complessivo (facendo la media tra le varietà) e andamento pre diluvi dell’annata ha partorito un’uva bianca dalle caratteristiche singolari ma efficaci: equilibrio spinto in su, tanto per acme verticale che per sensazioni d’ampiezza, e precursori d’aromi sufficientemente “efficaci” e non bruciati (come sovente è accaduto in questi anni) da calure eccessive.
Il risultato? Ancora in dinamico tragitto, ma già centrato sui fondamentali, il 2010 dissipa molte delle prevenzioni sciorinando una coerente e corposa successione di note olfattive – officinali, frutta bianca e tropicale, lievissimo tostato – pur accordate su un bouquet un filo meno orchestrale del solito e in singolare connubio di nordico e mediterraneo (ricordi di macchia alta).
Al palato, il vino impatta d’abbrivio su note decise d’agrume, che via via si stemperano e s’allargano, recuperando la tipica componente tattile e la sapidità, che tiene su il sorso per un bel pezzo: allungando, insieme al ritorno postolfattivo di note di buccia d’arancia e papaya, le sensazioni. Insomma: un vino in un certo senso bipolare. Tosto ed elastico insieme, lungo ma tutt’altro che filiforme, modello ala alta di basket, incuriosisce assai sul suo futuro. Che si prospetta malgrado tutto corposo. E, se progressivamente evolutivo, foriero di soddisfazioni certo ben superiori alle prime attese.