Ogni prima volta, si sa, contiene un po’ di scommessa. Che diventa persino ardita quando una realtà misurata e relativamente giovane (benché certo preveggente e ambiziosa, tanto da essere stata la prima e in netto anticipo a fregiarsi della D.O.C.G. nella sua regione) si iscrive a un campionato, quello delle Anteprime per critici (di new & old media) e stakeholders, che vede da un pezzo ai nastri big del calibro dei grandi toscani o dell’Amarone. Ma tant’è: l’Anteprima n.1 di Colline Teramane D.O.C.G., gestita con misura e compostezza (anche nel budget, e quindi nei numeri e nell’arco di durata), ma inappuntabile quanto sorridente efficacia, è stata un successo. E ha dato ragione all’attuale gruppo dirigente guidato dal presidente Enrico Cerulli, che l’ha voluta e messa in pista “sopravvolando” (avrebbe detto Corrado Guzzanti) e convertendo anche alcune iniziali renitenze – figlie di mancanza di convinzione, spirito ostinatamente autarchico, pigrizia o semplice “contrarismo”, di questi tempi tanto di moda – aleggianti inizialmente tra alcuni soci.
Doppiamente indovinata anche la formula. Che ha offerto in ante-anteprima la notizia (e relativo test) del nuovo “braccio” che si intende aggiungere – manca solo l’abbastanza normale sì ministeriale – agli esistenti, inserendo tra i Montepulciano “giovani” promossi in D.O.C.G. qualche anno fa e la classica, blasonata Riserva un’intermedia tipologia Superiore. L’obiettivo è permettere al consumatore di scegliere con ampiezza e variazione piena tra le diverse “età”, modalità di elevazione e progetti di beva che lo straordinario (e ancora non del tutto esplorato) vitigno di casa può offrire. Intelligente e intrigante anche la scelta di proporre, accanto ai vini figli della denominazione (tutta in rosso, come si sa, e monovarietale) anche un saggio di versatilità territoriale e delle tendenze dell’area, con una degustazione cieca di Pecorino, l’uva (e il bianco) che da qualche anno sono in rampante ascesa. E di cui la zona delle Colline rappresenta l’asse mediano di produzione tra il Piceno (dove la riscoperta della varietà è stata sancita) e le aree più interne (il Loretano, Crecchio, l’Aquilano) e meridionali (il prolifico Chietino) dell’Abruzzo.
E se il tuffo “nei” Colline Teramane (lungo l’annata “deb” ’18, la futura Superiore ’17 e le Riserve in uscita, ’16,’15 e ’14 secondo opzioni aziendali) pur nella palese variegazione dei campioni ha confermato il filo, non a caso rosso, che lega i Montepulciano di qui all’anima del terroir, l’assaggio del bianco in rampa ha proposto invece una fortissima divaricazione di prodotti e stili: quasi inevitabile conseguenza della gioventù del trend e delle profondissime distanze ampelografiche (reinnesti su vitigni oggi abiurati o nuovi impianti mirati, ma su terreni diversissimi) ed enologiche (opposte scelte vendemmiali, dal totale anticipo all’originario retard, e modalità di elevazione le più varie) tra i vari soggetti. Divertente appendice, infine, durante i dinner (disinvolto e e sapido quello d’accoglienza nel wine bar Vineria, di alto livello gourmet e felicemente gestito quello affidato all’Associazione Qualità Abruzzo ed eseguito dagli chef Alessandro de Antoniis, Patrizia Di Gregorio e Alberto Zippilli, rispettivamente di Cipria di Mare, Lucia e Borgo Spoltino e dal finissimo maestro pasticcere Sandro Ferretti) quella delle bolle (pur ormai inevitabili a qualsiasi latitudine nazionale). Con un paio di felicissime riuscite in Metodo Classico messe a segno da Centorame (“Anna”) e da Faraone sia in bianco che in versione Rosé.
In dettaglio: l’Anteprima ha comprovato anzitutto conferme brillanti per aziende dal blasone già noto e lustro. Esempi: l’intera batteria di Barba, dall’ammiccante Montepulciano “fresco” Yang 2018 al centratissimo Pecorino Collemorino 2019, iscritto all’Igt Colli Aprutini; gli hit di Nicodemi (il Neromoro 2016, non ancora “rilasciato” dall’azienda, sarà, a giudicare dalle premesse, tra i migliori in assoluto di sempre, e l’agilità del Le Murate 2018 funziona a dovere) e quelli di Montori (la convincentissima, suadente riserva Fontecupa 2015); la solidità e bevibilità ben mixate dello Zanna 2016 di Illuminati (riuscito anche il Pecorino 2019, prodotto in Doc Controguerra); la crescita costante e sempre più evidente di Cerulli Spinozzi, che ha messo in fila prove convincentissime su ogni fronte con l’acme del Cortalto 2016; la già collaudata e rifinita propensione all’”esperanto” enologico dei vini di Angela Velenosi (qui tornata a casa, lei abruzzese e “collinare” teramana d’origine), proiettati con stile verso i mercati del mondo (propensione ancor più evidente, ma con interpretazione stilistica qui tangibilmente “global”, per i rossi di Farnese); le conferme del Pignotto di Monti (ancora coccolato in casa, benché 2015, e di uscita ragionatamente tardiva) e del solido Celibe di Strappelli (stessa annata).
Sul fronte emergenti, sicura l’iscrizione a ruolo di Fosso Corno, i cui Colline D.O.C.G. 2017 Il Grande Silenzio e 2016 Orsus hanno entrambi fatto breccia. E rassicurante la prova dell’unica coop presente, la Cantina di Colonnella, con un D.O.C.G. 2017 solido e dinamico. Dal ruolino dei “verdi” (il sottoscritto fatica, e non vogliatene, a usare la definizione “naturale”, che continua a trovare una distorsione semantica se riferita a un vino fatto per essere commercializzato) alcune intermittenze, qualche piccola delusione e un hit assoluto, l’Ekwo Terraviva 2015, Pecorino assaggiato fuori contesto, ma davvero vincente, e prova provata delle potenzialità della strada intrapresa quando si evitano le deviazioni organolettiche più rischiose e azzardate. A proposito di queste ultime mi permetto di aprire una parentesi generale, e che non riguarda dunque il Colline Day, ma il nostro mondo in senso lato: svariati oggi rivendicano le suddette deviazioni come prove di “verità” e “originalità”, glorificandole e criticando chi le critica. La metafora che mi piace usare in questi casi è che tutti, e io più che mai, apprezziamo la nuova tendenza edilizia verso costruzioni, edifici, case sempre più sostenibili: a basso impatto, fatte di materie e con processi il più possibili “ecologici”, tese alla massima autosufficienza energetica e disegnate – ci mancherebbe – con tutta la fantasia e l’originalità del mondo. Ma nessuno dei loro progettisti si sognerebbe, in nome dell’ambiente o, peggio, dell’ideologia, di sottrarsi alle prove statiche dei materiali e delle fondamenta. O la casa travolgerebbe, crollando, coloro che andrebbero ad abitarla. Una fine forse “ecologica” ma non per questo meno sgradevole. Proprio come i sentori di certi vini…
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