La Sicilia del vino sta tornando. O almeno questa è l’impressione che ho avuto io in questi anni, assaggiando vini sempre più caratterizzati e puliti, in barba alle estremità climatiche delle ultime vendemmie, che nell’isola si fanno sentire con ancora più forza rispetto al continente. Qui, così come in gran parte dell’Italia, negli anni Novanta c’è stata una irresistibile infatuazione per un modello interpretativo dei rossi ben distante dalla tradizione: frutto maturo e avvolgente, dalla dolcezza accentuata, vaniglia e tostature in primo piano, struttura extralarge e tannini potenti e masticabili. Una strategia dettata dal successo, imperante all’epoca, dello stile dei Bordeaux amati da Robert Parker, che sembrava a molti una scorciatoia vincente per conquistare una consistente fetta dei mercati mondiali. Questo fenomeno sembra ormai fortunatamente rientrato, anche a causa di una decisa sterzata dei gusti, in particolare degli appassionati e dei consumatori italiani.
Una prima svolta è arrivata, nei primi anni 2000, dal risveglio del vulcano, ovverosia l’Etna, terroir storicamente molto vocato coi suoi Nerelli (Mascalese e Cappuccio). Poi è stata la volta della Valle di Mazara e dell’entroterra palermitano. Senza sottovalutare, anzi, la zona che dall’Etna viaggia a sud e arriva fino al mare, proprio di fronte a Malta. Qui il vitigno principe è, da sempre, il Nero d’Avola. Un’uva troppo spesso banalizzata e mortificata da tecniche di cantina che non rendevano giustizia ai suoi profumi primari e alle sue spiccate doti di freschezza. In particolare, nella provincia di Ragusa il Nero d’Avola, affiancato tradizionalmente da un saldo di Frappato, ha sempre dato vini agili, di spiccata reattività al palato e facili da bere e da abbinare con la multiforme cucina siciliana. Il vino-bandiera della zona, il Cerasuolo di Vittoria, è non a caso l’unica Docg dell’isola.
Mi sono dunque accostato con molta curiosità ai vini dell’azienda Poggio di Bortolone, il cui quartier generale è a Chiaramonte Gulfi, e in cambio ho ricevuto risposte significative: è vero, qui non si disdegnano escursioni verso i vitigni francesi, evitando però di scimmiottare stili di zone storicamente e culturalmente distanti e dandone invece un’interpretazione tutta “in levare”, centrata sull’immediatezza. Ma è chiaro che il focus della produzione rimane puntato sui vini tradizionali come il Frappato e il Cerasuolo di Vittoria.
Poggio di Bortolone ha la sua origine addirittura nel Settecento, quando l’antica famiglia Cosenza acquistò nei pressi di Chiaramonte Gulfi un feudo di mille ettari coltivato a vigna, ulivo e seminativi. Dopo circa due secoli a Ignazio Cosenza erano rimasti circa 60 ettari, e fu con quelli che decise di imbottigliare vino e olio con il marchio Poggio di Bortolone, a partire dal 1979; la prima etichetta di Cerasuolo riporta l’anno 1982. Oggi alla guida dell’azienda c’è il figlio Pierluigi. Gli ettari vitati sono 15, sui terreni collinari dove scorrono i torrenti Para Para e Mazzarronello, sono sabbiosi, ciottolosi e ricchi di ferro; tra i vitigni, coltivati a cordone speronato e guyot, oltre ai classici Frappato e Nero d’Avola e al rarissimo Nero Grosso, ci sono Petit Verdot, Syrah e Cabernet Sauvignon. La produzione totale non supera le 75 mila bottiglie.
Dopo una degustazione molto convincente delle loro etichette, in occasione dell’evento romano dell’associazione Go Wine dedicato ai vini siciliani, ho deciso di fare un approfondimento.
Di seguito i riscontri dei miei assaggi.
Rosachiara Sicilia Doc 2017 (Frappato 50%, Nero d’Avola 50%). Dieci ore a contatto con le bucce e poi quattro mesi in inox per questo rosato fragrante, semplice e gustoso, dalle infinite possibilità di abbinamento a tavola, in particolare con le preparazioni tradizionali isolane, anzitutto di pesce. Invitanti profumi floreali (rosa, tulipano), fruttati (melograno, pesca matura, gelatina), speziati (pepe bianco) e di macchia mediterranea. Sorso sapido e scorrevole, in giusto equilibrio tra dolcezza e acidità, con ricordi di caramella alla fragola in persistenza.
Frappato Vittoria Doc 2017 (Frappato 100%). Venti giorni sulle bucce, poi tre mesi di acciaio e due di affinamento in bottiglia prima dell’immissione sul mercato. Si tratta di un’annata già esaurita in azienda: proprio in questi giorni sta uscendo la versione 2018. Vero archetipo del vin de soif ragusano, con un naso di ciliegie, lamponi e geranio, anche balsamico; di struttura esile ma succosissimo in bocca, tannino impalpabile, beva travolgente e inebriante di frutti rossi.
Petitverdò Terre Siciliane Igt 2017 (Petit Verdot 100%). Macerazione di due settimane, poi malolattica e un anno in inox. “Parente povero” delle varietà bordolesi più celebri, piantato nel 1996 nell’ambito di un progetto universitario; l’esperimento è piaciuto all’azienda che ha deciso di produrre un vino in purezza. In effetti è una varietà tardiva, che si trova a proprio agio nei climi caldi e aridi. Aspetto cromatico giovanile, porpora e violaceo; olfatto vegetale sulle prime, poi ricco di frutta dolce e matura, prugna, mora, molto speziato, lievemente affumicato, cenni di gariga e cioccolato fondente. Palato coerente, scorrevole, carico di frutto (ancora la mora), alcol sotto controllo, bella estrazione, media corporatura, elegante, finale non lunghissimo ma di buona tensione e contrasto, con ricordi di frutta secca.
Addamanera Terre Siciliane Igt 2017 (Syrah 70%, Cabernet Sauvignon 30%). Dodici giorni sulle bucce, poi malolattica e affinamento in botti di acciaio per un anno, infine un breve passaggio in vetro. Un uvaggio non molto frequente, che dà un naso sottile ed elegante di spezie (pepe), erbe aromatiche, amarena, mirto, sangue e peperone crudo. In bocca è tonico e corposo, di discreta personalità, molto integro, con sfumature fruttate di bacche rosse; di buona persistenza e complessità, cattura tutto il calore del sole siciliano.
Pigi Sicilia Doc 2017 (Syrah 60%, Cabernet Sauvignon 40%). Due settimane sulle bucce, poi un anno e mezzo in acciaio e infine nove mesi in tonneaux da 500 litri. Profumi complessi di terra, spezie orientali, china, ginepro, ribes e vaniglia, con riflessi balsamici ed ematici. Sorso molto raffinato, tannini di grande qualità, è reattivo e goloso nonostante la mole non indifferente, la chiusura è lunga e sapida, segnata da note ammandorlate e agrumate. Il varietale resta in secondo piano, il legno è ben gestito, prevale il terroir. Un po’ diversa l’edizione 2014, assaggiata durante la manifestazione di GoWine, più legata a uno stile francesizzante, ma il vino si è ben conservato e ha una buona struttura. Due ottimi conseguimenti.
Poggio di Bortolone Cerasuolo di Vittoria Classico Docg 2016 (Nero d’Avola 60%, Frappato 40%). L’azienda produce ben tre etichette di Cerasuolo: il Contessa Costanza, in una versione più fresca e immediata, questa e il Para Para, affinato in legno piccolo. Dopo una macerazione di 12 giorni il vino fa la malolattica e poi sosta per un anno e mezzo in inox. Olfatto spiccatamente floreale, poi frutti rossi e neri (ciliegia e prugna in particolare), buccia di pesca, nocciola fresca, con note speziate e di caffè in secondo piano. Palato di grande freschezza e precisione (netti i rimandi alla fragola), diretto, dolce e vellutato. Bella sferzata acida in chiusura, di mora non pienamente matura, che regala slancio, frenato solo da una sensazione di calore alcolico. Ricorda un Beaujolais “serio” e ha un’ottima predisposizione alla tavola: provato con successo sia con un trancio di salmone che con qualche fetta di raclette appena scottata alla piastra.
Il Para Para Cerasuolo di Vittoria Classico Docg 2016 (Nero d’Avola 60%, Frappato 40%). Due settimane sulle bucce, poi 18 mesi in inox, dove svolge la malolattica, nove mesi in tonneaux e altri sei mesi in vetro. Naso sulle prime scuro, terroso, minerale, leggera tostatura, tamarindo, più autunnale rispetto agli standard della tipologia. Gusto molto intenso, anche qui la sosta nel rovere ha donato complessità e struttura senza penalizzare l’anima “gentile” del Cerasuolo. Perfetta l’estrazione dei tannini, fitti e ben amalgamati; è molto sapido e contrastato, l’acidità rilancia con continuità e invoglia a un nuovo sorso. Di lunga persistenza, chiude con nitide note di liquirizia dolce e arancia sanguinella. Ottimo con un pecorino semistagionato. Anche qui è interessante aggiungere qualche osservazione sull’annata 2014, che dimostra un’ottima evoluzione, aumentando la ricchezza e l’importanza del vino, e un sorso profondo, appagante, agevolato da un’indole fresca e giovanile.
Nato nel Luglio del 1969, formazione classica, astemio fino a 14 anni. Giornalista professionista dal 2001. Cronista e poi addetto stampa nei meandri dei palazzi del potere romano, non ha ancora trovato la scritta EXIT. Nel frattempo s’innamora di vini e cibi, ma solo quelli buoni. Scrive qua e là su internet, ha degustato per le guide Vini Buoni d’Italia edita dal Touring Club, Slow Wine edita da Slow Food, I Vini d’Italia dell’Espresso, fa parte dal 2018 della giuria del concorso Grenaches du Monde. Sogna spesso di vivere in Langa (o in Toscana) per essere più vicino agli “oggetti” dei suoi desideri. Ma soprattutto, prima o poi, tornerà in Francia e ci resterà parecchi mesi…
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