Sempre più specializzata nella produzione di liquori e distillati, l’azienda Silvio Carta si arricchisce di un ulteriore gin, l’Old Tom.
Per Old Tom Gin, una dicitura non prevista nelle quattro regolamentate dalla UE, si intende un London Dry Gin (un Distilled Gin, secco, con sentori predominanti di ginepro, al quale non si possono aggiungere aromi) più dolce per l’impiego di sciroppo di glucosio. È un ingrediente utile alla miscelazione con alcuni cocktail che ne prevedono l’uso in ricetta, o nelle loro varianti, come ad esempio il Tom Collins, il Martinez, il Gin Gizz, il Tuxedo, il Casino, l’Alaska, il French 75, ecc.
Ma è sempre stato tale come lo conosciamo?
Sembra proprio di no.
Gli storici del gin, cito su tutti David Wondrich e Gary Regan (del secondo consiglio la lettura del suo volume The Bartender’s Gin Compendium), sostengono che in passato Old Tom era null’altro che un nomignolo per definire il gin. Un po’ come in Irlanda alcune persone, per ottenere un bicchiere di whiskey (con la E in questo caso), chiedono una crayature, vale a dire una “creatura”.
Quindi è altamente probabile che a fine del ‘700 si chiedesse un “Old Tom” indifferentemente per un qualunque tipo di gin.
Però, a un certo punto del XIX secolo, sicuramente per mascherare i distillati di bassa qualità, i produttori cominciarono ad aggiungere zucchero ai loro gin, e Old Tom diventò il termine adoperato per definire i gin addolciti.
Perché si scelse il nome di Old Tom?
Ai cultori della lingua di Shakespeare e di Marlowe è noto che per tomcat si intende il gatto maschio, e spesso l’animale domestico è rappresentato in etichetta di un Old Tom Gin, come nel caso del prodotto di Silvio Carta.
Una doppia spiegazione (pertanto non definitoria) la troviamo nell’edizione del 1910 della Enciclopaedia Britannica, laddove per spiegarne l’origine del nome, intesa per i gin non dolci (e qui abbiamo un mistero poiché al tempo della sua pubblicazione Old Tom era già da decenni associato ad essi) rimanda a un processo del 1903 il cui querelante, la Boord & son, difese davanti al giudice il proprio diritto sul marchio registrato “Cat Brand”, riuscendo a dimostrare che fin dal 1849 aveva adottato l’immagine allusiva di un gatto maschio (un tomcat), aggiungendo tuttavia che il termine di Old Tom era ancor prima noto quale soprannome del vecchio Thomas Chamberlain lavorante presso la distilleria Hodge nella Church street di Londra, ora denominata Lambeth Road.
Che debba il suo nome a un felino o a un anziano distillatore, a partire dalla seconda metà del XX secolo l’Old Tom cadde progressivamente in disuso e la United Distillers (ora Diageo) smise di produrlo nel 1987.
La rinascita di questo particolare gin la dobbiamo alla Hayman’s di Londra che lo rilancia vent’anni dopo nel 2007, in base a una ricetta di famiglia del 1860 circa. Questa azienda aggiunge dello sciroppo in misura di 19 grammi litro, e al momento attuale negli Old Tom Gin l’addizione varia tra il 2% e il 6%.
Qual è l’elemento che può contraddistinguere il Tom Carta di Silvio Carta da altri Old Tom Gin? Non si aggiunge qui dello sciroppo di glucosio bensì del miele di millefiori di montagna per l’8% (e consentitemi di dire che il miele sardo ha qualitativamente poche occasioni di confronto con altri), che è fuori dal range attuale di addizione ma, come ben sappiamo, il potere dolcificante del miele è inferiore di circa il 30% poiché più ricco d’acqua.
Bando alle chiacchiere, lo abbiamo provato e ciò che segue sono le nostre impressioni.
La bottiglia è molto bella, bombata e pesante, con dodici scanalature verticali, e il titolo alcolometrico del distillato è di 44%.
Nella valutazione è necessario tenere presente la sua vocazione a prodotto destinato alla mixology, quindi non valutabile perlomeno in linea di principio, come distillato di cui fruire in purezza.
Il profilo è invitante, di macchia mediterranea, con ovviamente del ginepro, quello sardo, oltre a mirto, elicriso, finocchietto selvatico, timo al limone, pepe rosa, scorza di limone, salvia, tè al gelsomino, ortica. Il tutto adagiato su toni di morbidezza con suggestioni di miele floreale.
Ingresso zuccherino e speziato, torna il pepe rosa al quale si aggiunge dello zenzero candito, con un sorso oleoso e piuttosto alcolico, lungo e persistente, con finale di radice simile alla ruta e genziana, le quali infine lasciano il passo ad un ritorno prorompente di ginepro.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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