Una nuova varietà, un progetto ostinato e ambizioso e zero legno per un vino che dribbla ogni prevenzione.
Il bello di questo mondo – quello del vino ovviamente – è che ha radici ancestrali, piantate nell’adolescenza dell’umanità (senza esagerare con l’infanzia: i bambini, si sa, si emozionano col latte) ma un futuro più che mai aperto davanti. E non smette mai di sorprenderti. Anzi, ogni tanto, di spiazzarti, senza mezzi termini.
Esempio: l’avventura della famiglia Cesari (Umberto, il padre, andato via due anni fa; Gianmaria, il figlio che ne ha raccolto, aggiungendoci del suo, il testimone). Inizio, 1984.
Obiettivo: far vini di valore in Romagna, scantonando la tentazione e il gorgo fondo delle bottiglie troppo facili, per puntare via via su qualità, sostenibilità, sperimentazione. Quest’ultima ai limiti (a prima vista) dell’utopia, e dal nome, peraltro, nemmeno troppo promettente.
Merlese si chiama l’oggetto, a prima vista misterioso, che a a spiega fatta si svela essere un incrocio per impollinazione di Sangiovese da Merlot. L’idea cioè di fondere in un vitigno unico e originale, in una nuova viarietà, due caratteri che – seguirebbe elenco pressoché interminabile – in numerose, rinomate e vaste aree da vino italiane sono stati unificati a mezzo blend in bottiglie anche di altissimo ceto e prestigio.
Come è andata? Al primo approccio sono seguiti almeno dieci anni di frustrazione e di pazienza: decrescente la prima, allo spuntare (pur non immediato) dei primi risultati incoraggianti, immutata la seconda, senza la quale nulla si sarebbe fatto.
Intanto, per non tenere le mani in mano, nell’azienda (che è ampia e robusta, sforna etichette articolate e fa, tanto per dire, bolle, bianchi, ottimi Sangiovese e ha un’accorta quanto arguta macchina di commercializzazione tradizionale e on line) si lavora sul fronte ambiente. Via la chimica invasiva, adesione a un protocollo di ecoqualificazione globale (con bollino SQNPI) e dal 2021 prima produzione in bio con conversione avvenuta per il 30% del totale dei vigneti. Inclusi quelli a Merlese.
Che nel frattempo ha fatto il suo percorso, ha dissipato le ombre iniziali, è salito dalle prime selezioni clonali e dalla loro riproduzione vivaistica – datata nientemeno che 2004 – a 4 ettari tutti suoi, e 3000 bottiglie (in prevedibile crescita) prodotte.
Ma bottiglie di che? Di un vino che – orgogliosamente – si è preso il nome di Solo.
A rimarcare che il nuovo poulain corre, appunto, in solitaria. Che dentro i recipienti di vinificazione e di prima elevazione (cocciopesto e vetrocemento, con masse in acciaio) e l’elegante flacone di destinazione (nero e argento a sbalzo, e pezzo forte della nuova linea di packaging appena varata) c’è “solo” e soltanto lui.
E che non arrendersi alle prime traversie, insistere lucidamente con il supporto di adeguati consulenti scientifici (l’Università di Bologna) e con una scelta di location vivificate dal soffio dell’Appennino e rivendicate come “non facciamo vino di pianura” alla fine paghi, eccome… Visto che il Solo, nel calice, scintilla e – appunto – spiazza, oltre a spazzar via ogni prevenzione eventuale. Più “Mer” – inevitabile, e perdonatela dunque, la dissezione onomastica – all’inizio e al naso, tessuto di frutto goloso ma senza spanciature, amabile ma senza rese, e comunque fine.
Decisamente più “ese”, invece, in bocca, setosa di stoffa a trama sensibile ma elegantissima, con una acidità viva (le scelte di cantina ampiamente premiate) che lo rende vibrante. Un vino che in bottiglia, ma anche semplicemente in progressione storica futura per via della maturazione ulteriore dei vigneti, non può che far presagire il meglio.
Certo, il suo cammino non sarà (non è difficilissimo prevederlo) tutto in discesa. Il fautori del passato che non si tocca e del cavalluccio che è sempre meglio della ricerca; i comunque scettici a prescindere (i “no vax” dell’ampelografia) su qualsiasi scantonamento dall’autoctonia consolidata e acclarata (che nel caso del Merlese sarebbe peraltro l’inizio di una nuova autoctonia) avranno quasi certamente i loro anatemi da lanciare. Ma farlo (laicamente) alla cieca dopo l’assaggio del Solo, onestamente (e prendete l’avverbio alla lettera) non è roba facile per nessuno…
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