Cento anni – o giù di lì – da quando la proprietà esiste con l’assetto attuale (prima era passata, peraltro, per le mani di altre famiglie storiche).
Due invece da quando il suo ri-creatore e indomito conduttore, Gian Annibale Rossi di Medelana, se n’è andato.
Poco più di uno, infine, da quando le maglie del Covid hanno impedito al suo successore, il nipote Vittorio Piozzo di Rosignano, di fare immediatamente tutto quel che avrebbe voluto per condividerne e perpetuarne pubblicamente, e dal vivo, gli ultimi frutti di lavoro: i vini che han reso celebre il Terriccio – che pure è molto, molto altro – e in particolare il più blasonato del lotto: il Lupicaia.
Ed ecco finalmente, dunque, presentato a Roma (nella cornice impeccabile dell’Hassler) e apice di una verticale partita nientemeno che dal 1993 (prima annata “ufficiale” prodotta, preceduta da un paio di stagioni di prove non ancora targate), il fer-de-lance della produzione composita di questa tenuta-feudo: ben 1500 ettari in tutto, la superficie della Roma entro le mura, come ha puntualizzato Daniele Cernilli, voce insieme a Vittorio Piozzo della mattinata e conduttore finissimo della degustazione che, attraverso otto tappe, è approdata all’ultima (straordinaria per qualità): il Lupicaia 2016.
A Piozzo, prima di iniziare ad “ascoltare” i vini, il compito di tracciare il profilo filologico e attuale della grande “casa” da cui essi arrivano.
Un luogo vissuto a lungo da oltre 50 famiglie, ricco di strutture sociali e individuali (chiesa e scuola incluse), con dentro bosco, uliveto, allevamento di bovini di razza Limousine, il maneggio amatissimo dove Gian Annibale – campione di completo e destinato a una partecipazione olimpica prima che uno sciagurato incidente, di cavallo appunto, gli sottraesse l’uso delle gambe – addestrava, anche dalla carrozzella, dirigendo con fermezza e competenza assolute il lavoro di chi era in in campo, gli “allievi” a quattro zampe.
Più, oggi, un ristorante ambizioso (a condurlo è stato chiamato Cristiano Tomei, affermato chef dell’Imbuto) e una struttura di accoglienza in divenire, che porterà al varo di un autentico albergo diffuso, rigeneratore delle ex abitazioni cadute in disuso.
E infine, ovviamente, la vigna. Settantacinque ettari impostati e voluti dal dottor Rossi, appunto, e con dentro Cabernet Sauvignon, Merlot, Sauvignon Blanc, Petit Verdot. Entrato in scena quest’ultimo, ad affiancare nel blend del Lupicaia – e poi a rimpiazzare del tutto – il Merlot, compagno di viaggio iniziale del sempre dominante (90%) Cabernet Sauvignon. Come Cernilli (che ha ricordato, prima di ogni altra cosa, la sua amicizia con “Pucci”, come gli intimi chiamavano il tycoon della tenuta) ha rammentato prima di entrare direttamente nelle annate e nei calici.
Ed eccolo, dunque, il defilé dei millesimi scelti per l’occasione.
Lupicaia 1993: annata di freschezza, testimoniata da una acidità ancora viva e vivifica. Note costiere di macchia, agrume rosso, sapidità, echi di sangue lontani, con un naso che già promette integrità e un impatto al palato che non segnala il minimo sintomo di resa. Anzi…
Lupicaia 1995: avvolge e impatta con altra consistenza, più “dolce” e complesso al naso, dal frutto più ampio e scandito, questo figlio di annata di andamento lento (tardiva in tutto, dall’invaiatura alla raccolta) che ha tannini decisamente più forti e importanti. Ma la carne che li avvolge è piena, e l’acidità necessaria ad alleggerirne l’impatto c’è tutta. Un grande Lupicaia.
Lupicaia 2001: naso un po’ avanti, bocca indietro. Nel senso di tannini stretti, intensi, non del tutto integrati nella tessitura complessiva del vino, che risulta – unico del lotto – un po’ spaccato, un filo meno armonioso e compiuto. Figlio, in fondo, sincero della sua annata.
Lupicaia 2006: qui è già iniziata la progressiva (limitata ma efficace) epifania del Petit Verdot. La spezia entra dunque in scena con maggior evidenza; e l’acidità, anche in questo millesimo, è giusta ed equlibrante. E il vino si fa apprezzare.
Lupicaia 2009: nel quale il Merlot c’è ancora, ma Il Petit Verdot esprime ancor di più la sua presenza. Lo favorisce del resto il profilo complessivo del vino, più ampio del precedente e con una venatura alcolica che è forse la più netta (nel senso di percepibile) rispetto al lotto che lo ha preceduto.
Lupicaia 2010: si sarebbe detto “l”annata della perfezione” se non ci fosse stato prima quel delizioso ’95 ad aprirgli la strada (e indicare che qui il buonissimo non è un unicum e non è cosa di oggi) e poi lo straordinario (ci arriveremo) 2016 a chiudere la serie. Equilibrio, avvolgenza, sostanza, finezza tannica, uso accortissimo dei legni (qui dalle barrique dei primissimi lustri si è già approdati ai tonneau) e la deliziosa sapidità finale ne fanno un capolavoro orgogliosamente mediterraneo.
Lupicaia 2012: vino didattico. Un trattato sull’effetto (che ormai conosciamo fin troppo) di un’annata davvero calda, che rende paradossalmente il vino più chiuso e “freddo” (tannini tanti e meno risolti). Affrontata però con gli strumenti tecnici evoluti e affinati dall’esperienza che il cambio climatico, dall’”esagerato” 2003 in poi, ha forzatamente alimentato. Dunque, un vino gastronomico più che satrapico, ma integro e salvo.
Lupicaia 2016: ed eccola, l’annata meravigliosa che non ha bisogno di nessun salvamento – se non magari dal rischio di un consumo troppo rapido e immediato, tanto è già ora buono il vino, che pure è palesemente destinato negli anni a divenirlo ancor di più. Strepitoso l’equilibrio e la pienezza di sapore, elegantissimo l’approccio, sontuoso il frutto, evidente ma senza urli la nuance balsamica bandiera della casa. Il tutto introdotto (e concluso) da una palette olfattiva da primo della classe. Miglior ricordo di chi c’era quando è nato, e miglior auspicio per chi ne ha preso il posto, forse davvero non poteva capitare.
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