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Mamoiada giù la maschera – Anteprima dei vini dell’associazione Mamojà

L’esercizio della retorica dell’eccesso nell’universo divulgativo del vino, è pratica malauguratamente assai diffusa, ma grazie al cielo non l’unica. Sentenziare per (auto) convincere della palese e irrefutabile prospettiva, d’essere latori di ineludibili uffici, investiti di un incarico solenne, è tedioso e sordificante. Maestosità e superlativismi adottati obbedendo alla regola dell’esuberanza con lo scopo d’attrarre nel proprio campo gravitazionale figure celesti di astanti o lettori vaganti nello spazio eterno della conoscenza per generarne seguaci, essenziali satelliti per la stella narrante di indiscutibili verità.

Sono sovrastrutture, applicate come tinture, senza preventivamente aver levigato il supporto che in tal caso è un qualcosa di molto semplice, e del quale ogni illuminato produttore ha consapevolezza: solamente del succo d’uva fermentato e in tempi e luoghi divergenti maturato.

It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing (Macbeth atto V scena V).

Non sempre però tutto è in tal modo, talora fugge al dogma shakespeariano e alle leggi dell’astrofisica, e l’iperbole non è del tutto ingiustificata, come quando nel suolo italico ci si accinge a descrivere i vini provenienti da Mamoiada.

Non poteva che iniziare con una visita al Museo delle Maschere Mediterranee, che esplora le antiche tradizioni del carnevale della Barbagia, e include altre regioni italiane (Alto Adige, Basilicata, Calabria, Friuli) ed europee (Belgio, Bulgaria, Croazia, Grecia, Portogallo, Slovenia, Spagna, Ucraina) l’undicesima edizione di Mamojada Vives.

Si tratta di un museo certamente degno di visita e aggiungiamo creato con stampo moderno, prevedendo tra l’altro l’esperienza della realtà virtuale.

 

Difatti, l’immersione nell’atmosfera della festa che si svolge a Mamoiada il 17 gennaio per celebrare Sant’Antonio Abate e che segna l’inizio del carnevale storico del paese, con le pesanti maschere tradizionali dei Mamuthones dotate di campanacci e degli Issohadores, con la loro prima uscita dell’anno in danze che si trasmettono atavicamente, è stata talmente suggestiva da nutrire il desiderio di assistere dal vivo.

Il paese di Mamoiada conta circa 2500 abitanti ed è situato nel cuore della Barbagia attorno ai 650 metri di altitudine. La vite in Sardegna, ha almeno 5000 anni di storia: sono stati infatti rinvenuti dei vinaccioli all’interno di anfore nuragiche risalenti all’inizio dell’età del bronzo. Circa gli ettari vitati, a Mamoiada si è passati dai 55 di metà ottocento, ai 350 ettari attuali. Poggiano su terreni piuttosto omogenei da disfacimento granitico, su un’altitudine media di 736 metri, ma i cui vigneti iniziano a 600 metri per toccare i 900 in zona sud. Il vitigno principe è il Cannonau che rappresenta il 95% della superficie vitata, e che qui, complice la quota in cui cresce, si esprime presumibilmente al suo vertice qualitativo. Il restante 5% appartiene alla Granatza, uva bianca autoctona di cui certamente in futuro sentiremo sempre più parlare.

L’allevamento della vite è di gran lunga ad alberello, anche se non mancano il cordone speronato e il guyot.

La manifestazione di Mamojada Vives col tempo si è trasformata in un privilegio riservato per la stampa sulle anteprime delle nuove annate dei vini prodotti dagli aderenti all’Associazione Mamojà, nata nel 2015 e di cui Salvatore Sedilesu è l’attuale Presidente, e la cantina di famiglia della quale ha ereditato le redini è stata la prima a valorizzare questo territorio. Questa comunità non solo ama la sua terra, ma ne va giustamente fiera ed esige che chi sposa il manifesto sia un vignaiolo che risiede nel luogo. Ma non è tutto: desiderosi di proseguire una tradizione che si è tramandata interrottamente, vi è l’obbligo della viticoltura in regime biologico, con la fermentazione spontanea dei mosti, un must ideologico di tutto rispetto, soprattutto in merito ai risultati ottenuti con bottiglie sempre prive sia di difetti, che di aromi lontani dalla gradevolezza. In molti casi i vini prodotti derivano da un singolo appezzamento chiamato ghirada, veri e propri cru che danno luogo a espressioni di grande personalità e finezza.

Aderiscono al momento a Mamojà, basandoci su ciò che è presente nel sito ufficiale con l’auspicio sia aggiornato, i seguenti vignaioli produttori:

Beccoi Pino azienda agricola, Cadinu Francesco, Cosseddu Andrea, Crisponi Francesco, ‘Esole, Ladu Giovanni, Mele Antonio, Melis Cantina, Mertzeoro, Montisci Vitzizzai, Muggittu Mattia Cantina, Mulargiu Francesco Cantina, Mussennore Cantina, Pramas azienda agricola, Sannas Cantina, Sedilesu Giuseppe, Siotto Gianfranco, Soddu Osvaldo, Teularju, Tramaloni Gian Piero, Vignaioli Cadinu, Vike Vike, Vinzas Artas Cantina.

Osvaldo Soddu e Salvatore Sedilesu

C’è un altro aspetto che ci ha stupido in maniera considerevole, colpevoli d’essere alla nostra prima esperienza in Barbagia: le visite alle vigne di alcuni produttori, come Giuseppe Sedilesu, Montisci Vitzizzai, Antonio Mele, Teularju, Osvaldo Soddu, Tramaloni, che neppure la pioggia, a tratti copiosa, ha impedito di distrarci dall’osservare, hanno uniformemente evidenziato l’ordine e la pulizia nella loro conduzione, tale da essere portate ad esempio non solo nell’isola, una cura che solo chi onestamente ama la terra che lavora può perpetrare.

Gian Luigi Montisci di Montisci Vitzizzai a Foddigheddu

Pioggia dicevamo, flusso che in tempi e misure adeguate è indispensabile per la crescita di ottima uva per generare vino, e che durante il nostro soggiorno, a differenza di ciò che crea la luce in eccesso, ha magnificato i colori della natura maggenga dell’isola.

 

Al banco d’assaggio di quest’anno al quale abbiamo partecipato erano presenti 40 vini mostrati allo scoperto. Le Granatza erano ben 11, motivo di nostro rallegramento, i rosati ammontavano a 9, e i restanti 20 erano rossi a base di Cannonau. Faremo delle considerazioni di carattere generale, rimandando per maggiori dettagli alla prossima Guida ai Migliori Vini della Sardegna 2026 di Vinodabere che è in corso di eleborazione, dove la gran parte dei 40 vini presenti nel panel sono stati degustati da un team con bottiglia rigorosamente coperta.

 

Per prima cosa auspichiamo che si seguiti ad insistere sulla Granatza, ritenendola una valida alternativa al Vermentino per la Sardegna, per via del suo carattere adatto alla gastronomia, in un paese dove tra l’altro i consumi prediligono il vino bianco. Intensità, fragranza e freschezza, agilità nella sua facile beva citrina, acidità non tagliente ed eleganza di frutto che in qualche caso ci ha fatto gridare al capolavoro.

Discorso diverso per i rosati che tranne in alcuni casi dove sono risultati godibili e gratificanti, andrebbero a nostro avviso riconsiderati e rielaborati in modo differente, creando uno spessore e una persistenza maggiore.

Poco da obbiettare sui rossi di Mamojà: giù la maschera. Il crescente successo del Cannonau locale è assolutamente meritato. I vini sono ricchi e appaganti, carichi di piccola frutta a bacca rossa, di agrumi dolci e succosi, e di sentori di macchia mediterranea intriganti. Né mancano sentori speziati, e in qualche caso delle note balsamiche. Sono forti, ampi, quasi mai opulenti, con tannini levigati e gestione dell’alcol in morbidezza, di grande personalità e persistenza. La metà provenivano da un millesimo non facile  come è stato il 2022, eppure l’amministrazione dell’annata è stata felice e non abbiamo mai ravvisato vini deboli o di personalità nettamente inferiore rispetto alle annate più felici. Tuttavia è stato sufficiente testare il 2021 per strepitare e invocare l’eccellenza. Il 2023 (pochi i campioni degustati per via di un’annata che ha costretto molti a rinunciare a imbottigliare oppure a ridurre la gamma) promette molto bene e l’unica occasione di provare un 2024 previsto ci ha proiettato nel Rodano, con l’individualità da giovane Gamay, croccante e fragrante nel suo frutto a bacca, e che ci ha fatto a lungo pensare. Potrebbe essere una strada da percorrere per creare un vino di fascia intermedia, giovane, immediato, accessibile anche dal punto di vista economico.

In conclusione, abbiamo il sospetto che i vini prodotti in questo areale godano di un cromosoma vincente nel proprio dna, tale da rendere difficile l’uscita di etichette poco convincenti. Grazie alla sua favorevole collocazione, isolata nel nucleo di un’isola, alla cura, all’esposizione e all’invidiabile altitudine dei vigneti, ai nobili e vetusti filari ad alberello che danno vita a dei vini rossi, splendidi, ricchi e appaganti che ogni anno si confermano ai vertici dell’enologia italiana, Mamojà è una gemma nel panorama vinicolo, e come tale non poteva che essere incastonata al centro di un monile che è la Sardegna.

E tutto sommato anch’io mi maschero e un po’ mi sento mamoiadino.

 

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Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.

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