Iniziamo dalla conclusione e svelando il finale: che all’età di trent’anni si arrivi a concepire una struttura d’accoglienza così cordiale, con un adeguato livello d’eleganza senza scadere nella freddezza, in un ambiente invece caldo dove l’esigenza di accendere il bel camino che fa bella mostra di sé non si avverte e attualmente occupato da numerose cactacee di piccole dimensioni, e avere un chiaro percorso da intraprendere in cucina, mirante alla valorizzazione delle materie prime, rispettate malgrado la personalizzazione del piatto, spesso efficace, che non vuole tendere a fusioni e decostruzioni di genere, ma scegliere un alimento quale protagonista esaltandone le proprie ricchezze naturali, non può che farci piacere e convincere.
Non ci interessa minimamente ripercorrere le apparizioni televisive della chef Carlotta Delicato, del resto utilizziamo di rado quell’elettrodomestico di svago, quasi esclusivamente per la visione in dimensioni ridotte della settima arte, ma accennare al tema del viaggio invece sì.
Scrivemmo già in passato di quanto riteniamo valida e fatta nostra la ricerca di se stessi attraverso il viaggio, così sapientemente espressa dal nostro regista cinematografico prediletto, Andrej Tarkovskij:
In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l’uomo un viaggio simbolico. Ovunque vada è la propria anima che sta cercando. Per questo l’uomo deve poter viaggiare.
poiché l’aprirsi alla conoscenza di cose nuove, tipica motivazione del viaggiare, è nient’altro che un modo per approfondire la propria intimità. Secondo il cineasta, e per noi suoi umili devoti, tutti abbiamo necessità di viaggiare, in particolar modo chi, come l’artista, vive della propria inventiva, caso in cui diventa perfino obbligatorio. La contaminazione con altre culture, per uno chef, è utile a migliorarne il lavoro, e la riteniamo fondamentale alla creazione delle pietanze che andrà a proporre. Del resto non mancano gli esempi di cuochi debitori in tal senso, che ora godono di fama nei loro premiati locali con soffitto stellato.
Ma facciamo un passo indietro, perché siamo in presenza di una storia d’amore.
Carlotta Delicato natia di Atina (la città di Saturno), e Gabriele Tarquini di Rieti suo marito, si incontrano per la prima volta nel 2018 a Venezia. Lei aveva abbandonato l’Università di Cassino dove studiava economia per dedicarsi esclusivamente all’amore per la cucina, utilizzando i suoi risparmi per frequentare dei corsi specifici. Lui, invece, dopo aver frequentato un istituto tecnico per il turismo, svolge più di un lavoro che abbia a che fare con il beverage e l’hospitality. Al tempo veneziano lei lavorava come stagista presso il ristorante di Carlo Cracco e lui come guest experience food presso l’hotel Hilton. A Carlotta capita l’occasione che cambierà la vita di entrambi: entrare alle dipendenze dell’hotel Marriott e avere la possibilità di viaggiare. Ma i due sono innamorati, occorre prendere una decisione. Capendo che quell’amore di Carlotta per la cucina è troppo intenso perché possa essere sottovalutato, Gabriele decide di adeguare la sua vita a quella della compagna e seguirla in quello che saranno i percorsi alla ricerca della propria anima, come sosteneva il regista russo, e tradurla in lavoro. In questo caso, una volta tanto, è l’uomo che si licenzia.
Le esperienze intraprese in Costa Rica prima, a Budapest e infine a Barcellona, dove apprende tecniche incentrate sul fuoco circa le preparazioni e metodi di cottura, saranno alla base dell’idea di Carlotta di una cucina essenziale denominata Real Food, e questo sarà l’ultimo termine gastronomico che adopreremo, espressioni che ci garbano poco e sono oltretutto limitanti, di alcun aiuto a definire la sua cucina. Gabriele, invece, si adatta in quei luoghi a lavorare e come ultima tappa torna presso l’Hilton di Barcellona. Carlotta sognava un posto tutto suo, dove poter mettere in pratica le sue creazioni, ma la città catalana mal si confaceva con quello che aveva in mente, quindi la grande decisione: perché non tornarsene in Italia?
Contigliano, paese a sette chilometri di Rieti, che vanta una popolazione di circa 3800 abitanti, ed è a poco meno di 500 metri d’altitudine, è il luogo scelto dalla coppia il 2 giugno 2022 per mettere a frutto tutte le conoscenze conseguite in cucina da Carlotta, con grandi sacrifici e basandosi esclusivamente sulle proprie forze e disponibilità economiche. Paese dove dimorano, come i genitori di Gabriele, utili soprattutto a seguito della nascita del figliolo, due anni e mezzo fa. Invece il borgo dove il ristorante è situato, conta circa quaranta anime in inverno e un centinaio in estate.
Già percorrendo la strada provinciale 45 ci sentiamo osservati dall’alto, e proviamo la sensazione d’un invito a percorrere la deviazione in salita per poter arrivare al paese, osservarne l’interno e il panorama di cui si gode. Contigliano è cinto in buona parte da mura difensive di epoca medioevale. Assieme al direttore della nostra testata giornalistica (Vinodabere), Maurizio Valeriani, le percorriamo in senso opposto giungendo alla via di fuga, anziché intraprendere la ripida arrampicata che consente di accedere al borgo oltrepassando un portale d’ingresso ben conservato, la Porta dei Santi, che conduce direttamente al ristorante. Invece, ignari, varchiamo la Porta dei Codardi, chiamata così per l’episodio storico del 1501. A seguito del lancio di un sasso da parte di una donna, con leggero ferimento e rivolto alle spalle di Vitellozzo Vitelli cavaliere del Papa Alessandro VI Borgia, nonché nobile e signore di Città di Castello suo luogo di nascita, questi assieme a dei soldati di ventura, per il gesto codardo e l’aver negato i rifornimenti al suo esercito, decide il 7 agosto di quell’anno di saccheggiare il paese, fare strage di cittadini e dare le case alle fiamme. Ma nulla di ciò a noi accadde, non avendo per giunta fatto male ad alcuno, anzi non maledimmo in seguito l’errore, e di fortuna si potrebbe parlare, poiché fu fautore di un incontro dipinto a tratti dal surreale. Nel dubbio d’aver difficoltà a trovare il ristorante, chiediamo alla prima persona che incontriamo, senza sapere che si trattava di un americano, intento a raccogliere le foglie dalla antica strada ciottolata. L’azione ci immerge nel ricordo di una scena di un film visto tanto tempo addietro. In lingua anglofona ci mostra il percorso da seguire, aggiungendo che è un luogo fantastico, dove si reca un paio di volte a settimana (“però”, osserviamo tra noi). L’apprezzamento dell’ecologista ci mise appetito pensando inoltre che l’esperienza che ci attendeva sarebbe stata vocata alla magia. Tuttavia la persona aveva destato la nostra curiosità, così fu la prima cosa che chiediamo a Gabriele non appena lo vediamo venire ad aprirci. Si trattava di David, natio di Washington D.C. che a un certo punto della sua vita decide di trasferirsi in Italia e dopo tanto girovagare nello stivale sceglie Contigliano come dimora, al termine di una cena al loro ristorante. È un cliente assiduo, che ricambia la tranquillità che il borgo offre, paesino fuori dai circuiti turistici e senza punti informativi e attività commerciali, in quella maniera, aiutando a migliorarne il decoro. Ogni tanto dei connazionali vengono a trovarlo e lui puntualmente li porta al ristorante Delicato. In sostanza, è il loro Amico Americano. Storie che riportano a storie, pensiamo, come il titolo in italiano non del film del 1977 di Wim Wenders con Bruno Ganz e Dennis Hopper, ma del romanzo scritto tre anni prima nel 1974 dal quale è tratto, Ripley’s Game, terzo della pentalogia su Tom Ripley della scrittrice americana Patricia Highsmith.
Poco dopo arrivano gli altri due commensali, Antonio Tittoni e Chiara d’Orazio (di loro parleremo in seguito) che cogliamo l’occasione di ringraziare per l’ospitalità. Il palazzo in cui il ristorante si trova è antico, in precedenza ospitava un’attività analoga che ha avuto breve vita, ma un tempo era la sede di esercizi commerciali, prima dello spopolamento del borgo. Al suo interno è possibile effettuare un piccolo viaggio temporale, grazie ai pavimenti antichi originali e le pareti di pietra a vista. Il Ristorante Delicato è aperto da mercoledì a domenica solo per cena e sabato, domenica e festivi anche a pranzo. Ha 8 tavoli per 24 coperti complessivi. La carta dei vini è stata costruita passo dopo passo, e attualmente conta all’incirca 200 etichette rappresentative del suolo vitivinicolo italico e alcuni Champagne.
Leggendo il ricco menu del ristorante, che propone anche quaglia, agnello e germano reale, capiamo immediatamente l’idea alla base della scelta dei nomi dei piatti, vale a dire di uscire dagli schemi e da quanto accade nella cucina moderna, che privilegia l’evocazione. Pura semplicità, elencando solo gli ingredienti che ne sono protagonisti.
Noi abbiamo assaggiato i seguenti piatti che andiamo a descrivere:
PORRO – ROMESCO
Si tratta di un piatto già presentato a Barcellona col nome di Puerro Ahumado, vale a dire Porro Affumicato. Il porro è di provenienza locale (vegetali e uova che si utilizzano nel ristorante sono a chilometro zero, e provengono dalla azienda agricola L’Uovo del Campo di Contigliano), il cui effetto di cenere è ottenuto mediante l’utilizzo delle alte temperature del forno, in modo da bruciare la parte verde. Un secondo porro è cotto e portato a consistenza cremosa per essere poi versato nel taglio praticato nel primo. Insomma, un porro al quadrato. La salsa romesco a copertura in cima è ottenuta con un peperone molto aromatico che non ostacola il sapore del porro, affatto fibroso, anzi esaltandolo. Inoltre, a completare la salsa, memore dell’esperienza catalana, si utilizza una spezia sopraffina ed elegante: il Pimentón de la Vera, una sorta di paprika affumicata spagnola ricavata dalla macinazione dei frutti più dolci della specie di piante da cui si ricavano peperoni e peperoncini. Questa pietanza, assieme all’ultima del dessert, è quella che ci ha appassionato maggiormente, per il merito di mettere in risalto la materia prima protagonista, pur avendo interpretato il piatto con originalità, e soprattutto, senza che il porro protagonista sia da questa soffocata.
UOVO – PATATE – FUNGHI
L’uovo, da galline allevate a terra dell’azienda già citata, è cotto a 65 gradi per circa due ore. La salsa che l’accompagna è composta per tre quarti da patata di Leonessa, povera d’acqua che pertanto tiene benissimo la cottura, il restante quarto da Parmigiano Reggiano. Con dei porcini secchi si crea una polvere che è la base del crumble ai funghi, ed un fondo con gli stessi. Abbiamo trovato la pietanza semplice ed appetitosa, molto cremosa, e con acidità in equilibrio.
PAPPARDELLA – CAVOLFIORE – TARTUFO
In questa pietanza abbiamo leggermente l’eccezione a noi concessa. Siamo stati cortesemente accolti per pranzo di giovedì, quando invece solitamente il ristorante rimane chiuso. Non è stato pertanto possibile (ma ci rifaremo al più presto, promesso) assaporare la versione originale che prevede la pasta fatta a mano da Carlotta, sostituita in questo caso da quella prodotta dal pastificio di Luciana Mosconi di Ancona. Un piatto tuttavia inaspettatamente elaborato a noi che pensavamo a una semplice Pappardella al tartufo. Una portata che oltretutto, scopriamo a posteriori colloquiando con Gabriele, che Carlotta utilizza per azzerare i sapori precedenti e prepararsi ai successivi. Una specie di reset del palato. Ad ogni modo il cavolfiore viene cotto a bassa temperatura e aromatizzato rispettivamente con olio, sale, pepe, maggiorana, timo, aceto e zucchero. Terminata la cottura è avvolto in carta stagnola e lasciato a fermentare per 48 ore almeno, quindi si mette in planetaria e montato con la frusta fino a crearne una salsa, con l’aggiunta di sale e aceto. Gli scarti del cavolfiore, foglie incluse, sono utilizzati per il fondo di accompagnamento. Altra parte di cavolo, invece viene tostata in forno e glassata con senape e aceto. Per finire si manteca la pasta con questa salsa, e si aggiunge un cucchiaio di fondo con qualche pezzo di cavolfiore tostato. In cima a crudo una grattugiata di tartufo nero pregiato per circa 4 grammi, proveniente dalla Valle del Salto. Un piatto semplice ma complesso al contempo. Eh sì, dobbiamo assolutamente tornare per riprovarlo.
BACCALÀ – LENTICCHIE – BIETA
Abbiamo fatto una eccezione alla nostra quasi ventennale scelta vegetariana per assaporarlo e poterne parlare. Anche in questa pietanza è chiaro l’intento dello chef: mettere al centro un ingrediente, elevarlo su un trono, e il resto a corredo per amplificare gli aromi del primo. Chiediamo se vi è stata una cottura col latte, dal momento che troviamo il sapore della sua carne talmente delicato e con una morbidezza della polpa che invita. Il segreto era di una semplicità estrema. Si tratta di baccalà vero, il merluzzo bianco ovverosia il gadus morhua, giacché con il nome generico di merluzzo si identificano una dozzina di specie, inclusi erroneamente i naselli, e la nostra scarsa frequentazione col pesce in generale negli ultimi anni ci aveva ingannato. La semplicità del piatto prosegue con una cottura in purezza, al forno a 180 gradi, 50 al cuore, aggiungendo solo un filo d’olio. Il baccalà è servito con una crema di lenticchie di Rascino, una vasta conca carsica nella zona del Cicolano, presso Rieti, quasi al confine con l’Abruzzo, tra i 900 e i 1300 metri di altitudine, e riconosciute come Presidio Slow Food, dal seme piccolo color marrone, per metà frullate e il resto cotte in umido con un classico soffritto di sedano, carote e cipolle. Circa la lenticchia registriamo che, come per la patata di Leonessa, si tenda ad adoperare ogni ingrediente locale, laddove sia possibile. Mentre la foglia di bieta in testa, è solo sbollentata in acqua e sale, la cui lucentezza deriva dall’utilizzo di un po’ di olio alla clorofilla di prezzemolo. Piatto riuscito che abbiamo degustato come se fosse una parmigiana.
NOCCIOLA – PREZZEMOLO
È stato l’altro piatto che ci ha emozionato, creato da Carlotta dieci anni fa, potremmo dire un suo cavallo di battaglia. Si tratta di madeleine sbriciolate, fatte con uova, zucchero, farina, lievito in polvere e latte, a cui si aggiunge un olio al prezzemolo precedentemente preparato, che viene filtrato, e poi dell’olio di semi e sale di Maldon, per cuocere il tutto in teglia al forno a 170 °C per 20 minuti. Sono accompagnate nel piatto da palline di crema di nocciole, composte da pasta di nocciole, panna fresca liquida, uova, zucchero e gelatina.
Piatto di contrasti di consistenze e sapori gustosissimo, dove la crema di nocciole si sposa alla perfezione con la croccantezza aromatica delle madeleine al prezzemolo.
L’abbinamento con un metodo classico Oltrepò Pavese Grand Cuvée Storica Giorgi 1870 prima e un Petite Arvine Vigne Rovettaz Grosjean 2022 poi, ha reso il tutto più fluido e dopo un caffè usciamo sazi dal ristorante e il suo borgo, stavolta dalla porta di entrata, riflettendo che, tutto sommato, lo sbaglio non fu tale poiché la discesa è piuttosto ripida. Quel che conta è ovviamente l’esperienza provata, decisamente appagante, che ci fa augurare tanta fortuna, oltre all’attuale, a questa simpatica e talentuosa coppia.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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