Ed eccolo lì finalmente all’Osticcio di Montalcino un piccolo gruppo di professionisti e appassionati che attende ansioso di incontrare in esclusivissima anteprima i nascituri di casa Montevetine. Davide Bonucci di Enoclub riunisce, in questa occasione, uno dei più significativi e rappresentativi ambasciatori del Sangiovese chiantigiano nel mondo e la cucina d’eccellenza dello chef Roland Burki con del suo team di esperti Sommeliers.
Ed è Martino Manetti stesso che ci accompagna in questo viaggio di lettura del Montevertine di oggi, facendo incontrare passato e presente, raccontandoci quella storia che non si legge, quella che si può solo aver vissuto e di cui il vino è testimone liquido.
Si parla di storia del Sangiovese ma anche di una visione che, seppur sembrando anarchica e rivoluzionaria, ha dimostrato che la modernità è spesso difesa e preservazione del valore dell’autenticità. Quando Sergio, eclettico ed erudito ingegnere poggibonsese, acquistò Montevertine nel 1967, piantò un paio di ettari di vigna per divertirsi a fare il vino da consumare con gli amici. Ma in ogni canovaccio teatrale che si rispetti le vite degli attori vengono mosse da un destino che come un deus ex machina le costringe ad incontrarsi e a cambiare la storia. L’amicizia dello storico mezzadro Bruno Bini con Giulio Gambelli, alchemico enologo non – professionista e allievo inconsapevole del fu Tancredi Biondi Santi, segnarono le sorti delle scelte di Sergio che scegliendo di puntare sul Sangiovese in purezza vinificò la vigna delle viti vecchie che Bini appunto chiamava “torte”. È il 1977 e il Pergole Torte, che non rispetta il disciplinare che prevede le uve bianche nel Chianti, sceglie di mostrarsi al mondo come vino da tavola. È Sergio, con quell’ostinazione e fierezza toscana, che sceglie una via cosciente dove il vino sia sintesi umana e territoriale, un testimone di uomini e luoghi, di storia e di vita. Questa rivoluzione del Sangiovese come voce solista che interpreta territorio fuori dagli schemi, lo fa associare storicamente a quel concetto contestuale di Supertuscans con cui condivide la strada per il superamento dei limiti contemporanei verso una visione del vino che unisca la piacevolezza di beva e la complessità emotiva.
Fu la visione di un vitigno che marca il territorio nel tempo, perfetto interprete del genius loci, selvatico e ruvido, in quel territorio raddese fortemente minerale. Un vitigno di pazienza capace di ineguagliabile scorrevolezza ed eleganza. Una visione di cui oggi Martino si fa testimone e che persegue con la stessa filosofia produttiva fatta di cemento, legni di Allier e di Slavonia, decantazioni naturali e travasi per caduta. Nessuna magia enologica per il raggiungimento dell’eccellenza espressiva ma solo ascolto del territorio di cui il Sangiovese si rende messaggero.
LA DEGUSTAZIONE
E’ il momento di Pian del Ciampolo 2017, il piccolo di casa Montevertine, con i suoi 90% Sangiovese, 5% Canaiolo 5% Colorino. Il calore del 2017 non ha impedito a questo vino di giocare su toni freschi e vivaci. Al naso si apre un trionfo primaverile di giacinto, lavanda e rosa canina, che si accompagna a quella nota varietale di thè al karkadè e arancia rossa. E c’è freschezza ancora nel frutto con lampone, ribes rosso e corbezzolo, a cui si affiancano note aromatiche di maggiorana e origano con ritorni piccanti di pepe rosa. In bocca c’è tanta scorrevolezza, data anche da un’acidità di arancia amara, un tannino forte di gioventù che cresce deciso, figlio del sole, ma che non nasconde una saporosità salina. È un vino che ci racconta con parole semplici e chiare chi è il Sangiovese chiantigiano.
Segue Montevertine 2016 in tutta la sua espressività chiantigiana. Il Montevertine nasce nel 1971 come Chianti Classico ma dal 1977 assume la sua forma contemporanea di uvaggio di Sangiovese, Canaiolo e Colorino. Martino stesso definisce questa annata, classica ed identitaria, poiché valorizza l’acidità e la freschezza rispetto al corpo e al tannino. Al naso un vento floreale ci racconta di giacinto, iris e rosa appassita aprendosi al frutto con sentori di lampone, mela rossa e succo di albicocca. E poi ancora pepe nero, rosmarino e chiodi di garofano che fanno da apripista a toni più complessi di cioccolato all’arancia e thè ai frutti rossi. Al sorso troviamo una struttura elegante e sinuosa che si chiude in una sapidità salina. Si dischiude una mineralità piccante e persistente che narra l’origine territoriale e la magistrale fattezza. Questo è un vino da cui non ti stacchi, ti affascina e rapisce con quella personalità che racconta di un essere chiantigiano oltre il tempo.
Finalmente arriva il tanto atteso vinum belli, le Pergole Torte 2016 con il suo Sangiovese purosangue. Anche il maestro Alberto Manfredi che ha dato la veste alle Pergole dal 1982 non è più tra noi ma ci ha lasciato i volti dei vini del futuro. Si veste di eleganza la donna dell’etichetta 2016. Curata e professionale, ha tutta la sua sicurezza nello sguardo consapevole del suo essere donna. Nel bicchiere i toni leggeri e brillanti dei vini precedenti lasciano il passo ad un rubino più potente, foriero di profondità e forza. È un cavallo in corsa, finemente selvatico nei toni di pepe verde, assenzio e dragoncello. Una foresta che si ritrova nel frutto di mora di rovo e mirtilli. In bocca vince la scorrevolezza, proverbiale spalla dinamica del Sangiovese di Montevertine, figlia di quel Giulio che faceva i vini così, con quella freschezza atlantidea che poteva sorreggere il peso del mondo con naturalezza. L’equilibrio arriverà, c’è tanto da crescere ancora a livello aromatico, ma già rivela il carattere, nella sua trama tannica apparentemente scontrosa e quel finale di arancia rossa ed erbe officinali. È quel carattere raddese che lo rende inconfondibile, non replicabile e leggibile solo con il cuore.
E poi Martino ci regala una storia, un ricordo speciale attraverso un vino che non esiste più. Il Sodaccio 1987 è figlio di un’annata piovosa, in un tempo dove l’autunno di metà ottobre rappresentava la culla temporale della vendemmia, dove, oltre alle mani, l’unica tecnologia utilizzata in vigna era il carro. La vigna del Sodaccio era contigua alle Pergole e ha dato origine a questo vino fino al 1998, passando prima del famoso Cannaio, per essere il vino destinato a Pinchiorri. È formata da Sangiovese e Canaiolo, questa volta, la coppia storica dei perfetti complementari chiantigiani. Martino ci racconta come nel 1987 i suoi compagni di liceo siano accorsi in auto per salvare le uve di Montevertine improvvisando una vendemmia necessaria quanto devastante. Sembra che sia successo ieri, dalle parole di Martino e dalla freschezza del vino nel bicchiere. Ha i colori del tempo ma portati con grande vivacità. Al naso si fonde l’evoluzione di un grande Barolo con quelle note varietali del Sangiovese antico. Si alternano giocose note di miele di castagno, pan di zenzero, pasta di mandorle ma anche bosco, corteccia, radice di liquirizia, fungo secco, fiore del cappero, pasta d’acciughe, per finire poi in una balsamicità rinfrescante di thè, caramella latte e miele, mentolo. In bocca ci stupisce la freschezza e la perfezione intatta del tannino, la lunghezza della chiusura in succo di pesca noce e sale di mare. Un vino del freddo e della pioggia, che racconta di un autunno di Toscana. È un vino che dipinge un paesaggio e puoi saltarci dentro come fa Dik Van Dike in Mary Poppins del 1964.
Chiudiamo il viaggio con Aqua Vitae, la grappa di Montevertine. Qui le vinacce, dopo una pressatura molto soffice, sono ancora fresche e dense di estratto. La grappa viene invecchiata tre anni in botti esauste di esclusivamente di Montevertine. La sapiente mano di Priscilla Occhipinti eredita questo compito già da Gioacchino, proverbiale amico di Sergio. Un prodotto finissimo nei profumi di girasole, miele di tiglio, mostarda di limone, tostatura di nocciola e albicocca sciroppata. In bocca piacevolmente equilibrata, non ti affatica ma al contrario ti inebria con i ritorni aromatici dolci e balsamici.
Siamo alla fine di questo viaggio e tutti i soldati del Sangiovese sono lì schierati, fieri della loro vittoria espressiva. Vincono ogni volta la battaglia del racconto oltre il tempo. E siamo onorati sempre di essere testimoni di quello che è stato e di quello che ancora nasce da quell’eredità di Sergio e Giulio che Martino porta avanti con tanta passione.
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