Merano, interno giorno. Nelle sale del Kurhaus sono protagoniste le vecchie annate, com’è tradizione il lunedì del Wine Festival.
Un amico e collega mi convince ad avvicinarmi al banchetto dell’azienda Loredan Gasparini per provare una mini-verticale del loro vino più famoso: il Capo di Stato, uno dei bordolesi “storici” del nostro Paese, che nasce in provincia di Treviso, a Venegazzù, da Cabernet Sauvignon in prevalenza, con saldi di Merlot, Cabernet Franc e Malbec.
Confesso al mio complice un po’ di perplessità: i bordolesi italici non sono mai stati i miei vini del cuore, che batte più forte per gli autoctoni. Se dovessi fare dei nomi, arriverei a contare a malapena con le dita della seconda mano. Ma un po’ per le sue insistenze, un po’ per la curiosità di un nome indubbiamente storico e con un passato da piccola “star” del vino italiano, uscita poi dai riflettori, accetto la sollecitazione. Del resto, è un’etichetta che ho assaggiato raramente in vita mia (forse una volta sola) e magari potrebbe esserci qualche sorpresa.
Ha una storia, per una volta non si esagera, davvero leggendaria: il vino fu ideato nel 1964 dal conte Piero Loredan, e chiamato così dopo una visita del generale De Gaulle che lo equiparò a (secondo alcune fonti lo confuse con) un grande Bordeaux. Personaggio romanzesco, Loredan: detto “il conte rosso” per le sue pubbliche simpatie di sinistra, ma vicino anche ad ambienti di destra.
Ma arriviamo all’assaggio: le prime bottiglie (2013, 2012, 2007, 2006) non mi sorprendono: è un vino fatto molto bene, certamente, ma conserva una ricchezza di frutto e di struttura davvero impegnativa per il mio palato; soprattutto nelle annate più recenti, l’affinamento in legno piccolo si fa ancora sentire, così come l’opulenza estrattiva e la maturità spinta, dovute anche alle annate, più calde di quelle di una volta.
Poi arriva l’illuminazione. Un vino per me davvero perfetto, sia all’olfatto, elegantissimo e carico di suggestioni balsamiche e speziate, che in bocca, dove trova l’equilibrio, l’articolazione, la spinta che le altre annate, almeno per ora, non hanno. E la bevibilità. Parlo del 1997, cioè di una bottiglia figlia della vendemmia di venti anni fa, che oggi nel bicchiere sembra più pimpante e fresca (e lo è) delle annate più recenti.
Lo dico al responsabile dell’azienda che ci ha gentilmente servito i vini. E lui, con grande nonchalance, replica: “A partire dagli anni Duemila è stata stabilita una riduzione delle rese di quintali per ettaro”. Bingo!
Ora, può darsi sia un discorso troppo semplicistico il mio. Ma ci provo e la butto là comunque: non è che in questi anni caldi e siccitosi, che ormai sono diventati norma e non più eccezione, un modo per salvaguardare freschezza e bevibilità ai nostri vini (e un grado alcolico non intimidatorio) sta proprio nel non esasperare la riduzione delle rese? Non è che raccogliendo un po’ di uva in più (senza arrivare agli eccessi di certe zone dove la quantità ha sempre contato più della qualità) si riesce a bilanciare meglio il rapporto tra buccia e succo, a diminuire le concentrazioni e l’alcool, favorendo una dinamica gustativa più snella e in definitiva più in linea con il gusto e le esigenze del bevitore contemporaneo?
È una questione che pongo a tutti, agronomi ed enotecnici, giornalisti e appassionati.
Nato nel Luglio del 1969, formazione classica, astemio fino a 14 anni. Giornalista professionista dal 2001. Cronista e poi addetto stampa nei meandri dei palazzi del potere romano, non ha ancora trovato la scritta EXIT. Nel frattempo s’innamora di vini e cibi, ma solo quelli buoni. Scrive qua e là su internet, ha degustato per le guide Vini Buoni d’Italia edita dal Touring Club, Slow Wine edita da Slow Food, I Vini d’Italia dell’Espresso, fa parte dal 2018 della giuria del concorso Grenaches du Monde. Sogna spesso di vivere in Langa (o in Toscana) per essere più vicino agli “oggetti” dei suoi desideri. Ma soprattutto, prima o poi, tornerà in Francia e ci resterà parecchi mesi…
Aggiornamenti continui sul mondo dell'enogastronomia