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I migliori assaggi della degustazione organizzata a Roma da Terraviva

Ogni due anni a Roma c’è un imperdibile appuntamento per tutti gli amanti del vino di qualità, oltre che un’importante occasione di lavoro per ristoranti, enoteche e distributori. È la degustazione “extralarge” organizzata da Terraviva, agenzia di rappresentanza romana che, come scritto sul sito internet, ha l’ambizione di essere ambasciatrice “di una terra sana e vitale, non offesa dalla chimica, dove il lavoro ad essa dedicato sia fondato sul rispetto del territorio e delle persone ed il cui frutto sia libero da logiche industriali”. Al di là di tutto questo, possiamo testimoniare che i vini proposti dalle tante aziende presenti sono davvero buoni e che la proposta viene rinnovata costantemente, con nomi interessanti da segnalare agli appassionati.

In questo senso, il primo che viene in mente è Roberto Ferrari, azienda altoatesina che ci ha stupito con un Gewürztraminer 2015 finalmente libero da orpelli e svenevolezze purtroppo ricorrenti in questa tipologia. Un vino agile, fresco, salato e minerale che non stanca il palato e invita al riassaggio. Un altro produttore originale e da segnare sul taccuino, nella Murgia barese, è Francesco Dibenedetto, titolare con la famiglia dell’Archetipo. I loro vini, sostiene, sono frutto di “agricoltura sinergica”, una sorta di biodinamica 2.0 sulle orme di Steiner e Fukuoka. Tra le tante etichette, ben 14, segnaliamo il Brut Nature Marasco 2016, dall’omonimo (e pressoché sconosciuto) vitigno, una bollicina gastronomica, succosa, lontana dall’eleganza di un Metodo Classico del Nord ma di grandissima sapidità e beva compulsiva. Da provare anche il Litrotto bianco e la Verdeca.

Sempre nel campo dei bianchi, tante belle conferme: anzitutto Stefano Bellotti e la sua Cascina degli Ulivi, con lo storico alfiere del Gavi naturale, il Filagnotti. L’edizione 2015 è molto promettente, ma la 2010 portata in degustazione è eccezionale: odore di erbe aromatiche, sorso pieno e complesso, nessun segnale di cedimento. Fortunati coloro che riusciranno a trovarne qualche bottiglia… In quanto a longevità uno che non scherzava era Stanko Radikon, un vero pioniere della tecnica degli orange wine (bianchi macerati). In gran forma l’Oslavje 2011, assemblaggio di Chardonnay, Sauvignon e Pinot Grigio, dal naso di miele, mela e frutta secca, elegante in bocca, generoso, profondo. Buonissimi anche Ribolla e Jakot della stessa annata, che come l’Oslavje sostano per tre mesi sulle bucce e quattro anni in botte grande.

Torniamo al Sud, stavolta in Sicilia, con il Vinujancu 2015 dei Custodi delle Vigne dell’Etna, una delle tante creature del vulcanico (è il caso di dirlo) Salvo Foti. Nasce da alberelli di Carricante, Riesling renano, Grecanico e Minnella allevati a 1.200 metri di altitudine. Profuma di camomilla, cera d’api, pietra, agrumi, con leggeri sbuffi floreali e affumicati. Il sorso è complesso, leggermente tannico, salato, molto persistente. Promette grande longevità.

Chiudiamo la rassegna dei vini bianchi con un vero classico, anche stavolta particolarmente adatto all’invecchiamento: è il Verdicchio di Matelica Fogliano 2016 di Bisci, da una selezione dei migliori vigneti aziendali, in cui troviamo tutte le caratteristiche migliori di un Verdicchio, a partire da un olfatto marcato dall’anice e dalla pesca gialla e da delicate note balsamiche e vegetali. In bocca è finissimo, fresco ed equilibrato, il finale è lungo e leggermente amaro sui toni del pompelmo.

Passando ai rossi, raccontiamo prima di tutto una bella realtà delle Langhe finora non esattamente sotto i riflettori. Si tratta dell’azienda Amalia di Monforte, nata quindici anni fa su impulso della famiglia Boffa, di cui ci ha colpito in particolare il Barolo Le Coste 2013, più aperto e godibile dell’ottimo Bussia di pari annata. Tipici aromi da Nebbiolo giovane, viola, frutti di bosco, poi spezie e tabacco; all’assaggio è profondo, succoso, verticale, con una spalla acida che dà per ora una bella dinamicità al sorso e garantisce un futuro lungo e felice.

Dal lato opposto dello Stivale, Arianna Occhipinti continua a convincere soprattutto, a nostro avviso, col suo Frappato, vitigno autoctono per eccellenza di Vittoria e dintorni. Il 2016 ha un naso di frutta rossa croccante, spezie orientali, dal sorso molto intenso, espressivo, reattivo, completo grazie alla riuscita fusione tra succo e complessità tannica. Stavolta il consiglio è di stapparlo in fretta, non serve aspettare qualche anno: più irresistibile di così… Risalendo un po’ più a Nord, ecco una denominazione e un territorio che fanno ancora un po’ fatica a (ri)emergere, quando invece storia e potenzialità ci sarebbero tutte. Parliamo del Cirò calabrese, in particolare del Cirò rosso Riserva Più vite 2012 di Arcuri, frutto di antiche piante di Gaglioppo, compresi alcuni alberelli del 1948: vino serio, affinato quattro anni in cemento, profumato di iodio e bacche rosse mature, dal tannino dolce e ricco. Azienda giovane (prima etichetta 2009) ma dalla lunga storia di famiglia contadina, produce anche un bel rosato non banale, di discreta struttura, il Marinetto.

Alessandro Dettori è celebre per le sue selezioni di Cannonau da vecchie viti (anche ultracentenarie) coltivate in Romangia, nel nordovest della Sardegna, ma stavolta preferiamo segnalare l’Ottomarzo 2016 da Pascale in purezza, uno dei tanti vitigni autoctoni quasi sconosciuti fuori dall’isola. All’olfatto emergono ciliegie, pepe, mirto, un tocco di liquirizia e di goudron. Al palato è morbido, caldo ma equilibrato, dai tannini delicati e scorrevoli. In chiusura ritornano le note di frutta rossa matura e vien proprio voglia di cibo: carne ovina o ancor meglio porceddu, naturalmente.

Tornando nella penisola, non possiamo non parlare del nuovo Taurasi Riserva di Luigi Tecce, il Purosangue 2013, che dovrebbe uscire solo a fine anno: naso di sottobosco e terra bagnata, fichi secchi, prugna, bocca più ordinata ed elegante di quello che si è soliti pensare riguardo a questo produttore. Poi assaggi il Poliphemo 2013, e vien da pensare che è l’annata ad aver ingentilito l’animus più viscerale dell’aglianico di Paternopoli. Qui dominano le erbe aromatiche e il sorso è dolce e sapido, dissetante e lunghissimo. Infine, il fratellino Satyricon, stavolta del 2015, ti fa tornare sulla terra. In tutti i sensi.

Ultima citazione per i grandi Teroldego di Elisabetta Foradori, con il consueto, atteso derby tra Morei e Sgarzon 2016, i due cru affinati in anfora: vince il primo, grazie ai classici sentori di more, mirtilli e fiori rossi, a una succosità devastante, a un frutto purissimo, a una chiusura precisa dal lieve e stuzzicante sottofondo amarognolo. Buonissimo anche il Foradori di pari annata.

Nato nel Luglio del 1969, formazione classica, astemio fino a 14 anni. Giornalista professionista dal 2001. Cronista e poi addetto stampa nei meandri dei palazzi del potere romano, non ha ancora trovato la scritta EXIT. Nel frattempo s’innamora di vini e cibi, ma solo quelli buoni. Scrive qua e là su internet, ha degustato per le guide Vini Buoni d’Italia edita dal Touring Club, Slow Wine edita da Slow Food, I Vini d’Italia dell’Espresso, fa parte dal 2018 della giuria del concorso Grenaches du Monde. Sogna spesso di vivere in Langa (o in Toscana) per essere più vicino agli “oggetti” dei suoi desideri. Ma soprattutto, prima o poi, tornerà in Francia e ci resterà parecchi mesi…

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