Uno dei piaceri più significativi della frequentazione del mondo del vino, troppo spesso dimenticato, è la possibilità di degustare in luoghi di “grande bellezza”. A Palazzo Gondi, in centro a Firenze a due passi da Piazza della Signoria, alla bellezza si aggiunge la STORIA: il possente bugnato della struttura progettata da Giuliano da Sangallo racconta di secoli di potenza economica e, con un minimo di suggestione, di subdoli intrighi…; l’eleganza del cortile interno rinascimentale dimostra un gusto estetico mai fine a se stesso, bensì reso vitale da un cultura profonda.
Palazzo Vecchio dal tetto di Palazzo Gondi
L’occasione di essere ammesso in questo “giardino di delizie” (per la quale non ringrazierò mai abbastanza l’amica Patrizia Cantini) è stato a sua volta il racconto di una storia enoica, piuttosto singolare in verità, ovvero di un’intuizione visionaria volta a creare, osando, una tradizione vivificata ex novo. Nel 1985 Bernardo Gondi, affascinato dalla qualità dei primi Supertuscans, decide di piantare Cabernet Sauvignon nella sua tenuta in Chianti Rufina, in un’area che aveva visto peraltro la sperimentazione dei vitigni francesi già a fine ‘800. Il nuovo vino basato sul Cabernet (che presto diventerà in purezza nel 1989) viene chiamato Mazzaferrata: ricorda sì lo stemma araldico della casata ove appunto si incrociano due bellicose mazze ferrate, ma come si può non pensare che non sia il nome più adatto all’imponenza del tannino e della struttura, che erompono in forza dei suoli calcarei e argillosi e dell’esposizione a Sud Est delle vigne (che consente maturazioni prolungate e quindi estrazioni importanti). In una degustazione verticale, non mi stancherò mai di ripetere, soprattutto di un vino di questa fatta e di questa giustificata ambizione, non si ricerca la registrazione dello ”stadio” di invecchiamento, bensì la definizione di un’identità.
E il Mazzaferrata è stato all’altezza delle aspettative: mai piacione, sempre stesso, imponente e saporito, innervato da una splendente acidità che ne slancia la possanza; molto profondo, spesso ancora futuribile, molto Rufina, ovvero un nobile vitigno compiutamente al servizio del territorio. Nell’inevitabile variabilità di bottiglie con molti anni sulle spalle, in un arco di tempo che si estendeva dal 1992 al 2011, e senza entrare nel dettaglio ragionieristico delle singole annate, diversissime dal punto di vista climatico, mi hanno affascinato in particolare (ma non solo): la nobile evoluzione aromatica del commovente, sfortunato 1992, che ha spiccato nel bicchiere come una fiamma brillante, per poi estinguersi gradualmente; la sapidità e il grip tannico del millesimo 1998, che ha lentamente sprigionato un naso complesso, speziato e chinato; il garbo e la maturità del torrido 2003; e, soprattutto, la formidabile materia dell’annata 2005, di cui non saprei se più lodare la compiutezza al palato, la sapidità, o il potenziale di longevità. Alla fine della degustazione, la ciliegina sulla torta di una magnifica esperienza: la première del nuovo vino della casa, l’intrigante Fiammae, figlio della splendida annata 2016 e dell’intuizione dei figli di Bernardo, Gerardo e Lapo, che certo hanno ereditato l’estro familiare in termini di voglia di sperimentare: Sangiovese in purezza, il 50% della massa pigiata immediatamente, l’altra metà appassita per un mese, il tutto fermentato in due SOLE barrique. Bella la complessità aromatica al naso, con toni floreali in commistione con evidenti note di cassis, forse a causa dei due diversi tempi di vinificazione; palato potente, per adesso reticente, leggermente rigido per importanza della massa estrattiva ma non scontroso, com’è normale attendersi da un vino fatto per durare. La serata si è conclusa con una deliziosa cena gentilmente offerta dalla famiglia, in abbinamento alle altre etichette aziendali (un plauso particolare per il Vinsanto!): ma se le specialità toscane occhieggiavano invitanti nei vassoi, l’anima si era già saziata della vista dei tesori architettonici di Firenze dalla terrazza panoramica di Palazzo Gondi. Uno spettacolo da Sindrome di Stendhal, che ci raccontava che la gloria del passato non è morta, vive qui adesso, e dà vita al futuro che abbiamo trovato nei bicchieri.
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