A lavori in corso, quel che colpiva era la dimensione dell’area. A cose fatte, e vista da una certa angolazione, l’indubbia imponenza. Poi, cambiando angolo, la capacità dimostrata nel farne assorbire la cubatura dall’ambiente senza stravolgerlo drasticamente. Dentro, infine, la sensazione è doppia: da un lato l’apprezzamento per la razionalità della impostazione (le rampe per la salita e la ridiscesa dei mezzi che trasportano le uve, il lavoro per caduta, la disposizione sequenziale degli spazi, tutto al servizio della qualità e nel rispetto certificato di soluzioni a basso impatto energetico ed ecologico); dall’altro l’ammirazione schietta per la qualità e quantità dei servizi previsti per visitatori di ogni livello tecnico e ogni tipo di interesse. La nuova casa della Cantina di Bolzano è davvero notevole. E notevole sarà l’impulso che potrà dare per il futuro di una realtà già (peraltro) in piena forma. Comprensibile dunque l’orgoglio del presidente Michael Badlwater e della compagine che guida, palpabile la soddisfazione di Stephan Filippi, il longilineo, bravissimo kellermeister alla guida di questa composita realtà, e giustificato il festone con i 224 soci seguito al taglio del nastro.
L’investimento – 35 milioni – è importante quanto l’opera. Ma poggia le basi su un’operazione strategicamente congegnata, e in gran parte alimentata dalla vendita delle sedi storiche (ubicate entrambe in modo tale da essere assolutamente appetibili per un investitore immobiliare) delle Cantine di Gries e Santa Maddalena, le due anime che, fusesi nel 2001, danno vita alla solida realtà bolzanina. La sede unica (e certosinamente progettata ad hoc) per tutte le operazioni e l’accoglienza renderà tutto più fluido, agile, razionale: e dunque più redditizio, e foriero di ancor migliori livelli di prodotto.
A certificare quelli già attinti, la Cantina e il suo enologo capo hanno prima di tutto offerto una ricognizione sui bellissimi vigneti (in tutto 340 ettari dislocati da 200 a 1000 metri di quota e in location davvero importanti).
Quelli di Renon, adesempio, a oltre 500 metri, piantati su terreni profirici e dedicati allo Chardonnay Klenstein (freschezza e struttura dialetticamente fuse tanto nella 2017 che nella 2018 attesa al debutto); quelli, al cuore della zona classica, altezza a partire dai 250 fino ai 500 metri, da cui arriva la suadente convincente Santa Maddalena Huck am Back (Schiava e Lagrein); quelli storici del solido, strutturato Cabernet Mumelter (2016 assolutamente all’altezza della sua fama) e quelli bellissimi del Lagrein di punta, il Taber. Del quale è stata (con meditata sfida) proposta la “verticale” che ha solennizzato l’inaugurazione della nuova “casa”. Perché se della longevità del Mumelter e del suo vitigno si sa tutto, la scommessa su quella del Lagrein, anche per il top di gamma, il Taber (vinificato in recipienti di piccole dimensioni, con follature a mano nei tini e maturazione per un terzo in barrique nuove, un terzo in barrique di un anno e il restante in barrique di due anni) è un fattore, appunto, da scoprire.
Ecco allora il percorso (illustrato da Filippi) con partenza dal 1998 e approdo al 2016, con progressione davvero rimarchevole.
A partire proprio dall’annata più agée, Un Taber 1998 figlio di annata fresca ed estate piovosa, rubino-granato con bordo appena aranciato, naso con frutto dalle tracce leggere di ossidazione e bocca calda, con venature palesi di spezia e distinte note pepate.
Salto impressionante col 2004, l’annata proposta a seguire, occhio bellissimo, frutto e sottobosco e nuance appena accennate di confettura al naso, fili di tostato e vaniglia ma frutto nitidissimo al palato, finale speziato e gustoso e una valutazione ultralusinghiera.
Più fresco e tannico (in accordo con gli andamenti climatici) il 2005, marcato al gusto da un nitido souvenir di visciola, e dotato di temperamento ”gastronomico” (la capacità di rinnovare la bocca nel pairing con piatti importanti e salsati) notevole.
Stacco evidente col successivo 2010: note di erbe officinali, spezia vivida, ma anche sfumature di cacao al gusto per un bouquet originale e un impatto già molto risolto al palato.
Maturità ben espressa, e accoglienza al gusto anche per i successivi 2011 e, soprattutto, l’ampio, succoso, muscoloso ma disponibile 2012, marcato dalla ciliegia nera come evocazione dominante.
Bocca meno grassa e naso appena “vegetale” allo sbarco nel calice per il 2013, figlio di annata non avara di pioggia, in primavera, inizio estate e a ottobre. Ma l’equilibrio finale c’è, condito anche da una nota fine di tostato.
Il grazioso, affusolato 2014 racconta la sua annata, più fredda e magra. Lo fa senza l’imperiosità di altri millesimi, ma con agile piacevolezza, appena incisa da tannini un filo più asciutti.
La coppia che segue e che ha chiuso la degustazione ha detto poi forse la parola decisiva. Certificando cioè che il lavoro sul Taber è da considerare assolutamente in progress, e in qualche modo da attendere in ulteriore ascensione grazie all’apporto della nuova struttura di cantina. Sia il 2015 (maturità fenolica impeccabile, bocca piena, giovane, calda, ma compatta, e stoffa vellutata al palato) sia il più trattenuto e cangiante 2016, dalla bellissima promessa di complessità e di longevità, hanno impressionato davvero. Entrambi scavalcando (e con loro, tra i”grandi vecchi”, il già lodato 2004), e di parecchio, la classica soglia di eccellenza dei 90/100.
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