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Marche – Castorano: da Valter Mattoni, il “pittore monocromatico” viticoltore per passione – VINODABERE – Esperienze nel mondo del vino, della gastronomia e della ristorazione
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Marche – Castorano: da Valter Mattoni, il “pittore monocromatico” viticoltore per passione

Il suo soprannome è “Roccia”. Di mestiere fa l’imbianchino. Anzi, il pittore monocromatico: è così che ama definirsi. Sarebbe stato divertente se, con un cognome come il suo, avesse fatto il muratore. A dire il vero ci aveva pensato, ma l’allergia alla polvere di cemento lo fece fermare. Genuino, spontaneo, compagnone, con una chioma bella folta che lo fa sembrare un chitarrista rock. Il vino, da sempre, è la sua grande passione. Lui è Valter Mattoni.

Tra le colline che circondano la vallata del Tronto, a Castorano (AP), ha dato vita a una cantina. Quando il cielo è limpido le sue vigne guardano da una parte il mare, dall’altra il Gran Sasso.

Partì tutto per gioco, alla fine degli anni ’90. La viticultura non era materia nuova per il pittore. In famiglia vino s’era sempre fatto e bevuto. Simboliche le parole da lui scelte per descrivere la sua passione. Sotto la voce “tradizione”, nella brochure che tiene in cantina per i clienti, leggo: “Mio nonno Nazzareno quando si lavava il viso stava bene attento a non ingoiare neanche una goccia d’acqua, in effetti fin da quando era ragazzo l’unico liquido che aveva mandato giù era il vino, solo vino, vino di contadino che si faceva da solo, in tempi privi di enotecnici di professione. Anche l’altro mio nonno Giuseppe si faceva il vino da solo e mio padre Gaspare non è stato da meno. Avrei potuto interrompere la tradizione? Mai!” A Castorano era così, casa e cantina. Il vino come alimento. Lo stesso fuori casa, tra amici. «Noi bevevamo per bere, e ci piaceva. Bevevamo vini importanti, facendo le collette; dell’Osteria dell’Arancio oramai facevamo parte dell’arredamento. Lì venivano a mangiare personaggi importanti, conoscemmo Dario Fo, Franca Rame, direttori di giornale…» racconta.

Grande amico di Valter era ed è Marco Casolanetti. «Quando nel 1997 gli furono riconosciuti i “Tre Bicchieri” con il Kurni, mi sono detto: “Valter, il Montepulciano ce l’hai anche tu, perché non inizi?” Così iniziai sul serio, prima con una barrique, poi con due, tre, quattro…».

Tra viticultori crearono un gruppo. Lo chiamarono i “Piceni Invisibili”. Obiettivo condividere le rispettive esperienze e dare risalto al proprio territorio. «Ne facevano parte Ciù Ciù, San Savino, Aurora, Le Caniette, Maria Pia Castelli, San Giovanni, Casolanetti e io. Ci incontravamo e facevamo degustazioni alla cieca. Una volta riuscimmo a coinvolgere anche la Camera di Commercio e girammo per i ristoranti portando le Marche in tutt’Italia».

Ma Valter Mattoni, di fatto, fino al 2006 ancora non esisteva veramente. L’anno di partenza, quello ufficiale, fu il 2006. «Mi sono intrufolato all’interno della cantina “Clara Marcelli”, che sono i miei cugini. Sono partito con loro, rimanendo lì 6 anni finché, nel 2012, non ho realizzato la mia cantina» dice.

Il gioco, però, sta diventando un lavoro a tutti gli effetti: notte, giorno e fine settimana. La cantina richiede attenzione. I pavimenti in resina è arrivato il tempo di abbandonarli, perché dietro le fermentazioni, per evitare di buttare tutto, bisogna starci costantemente.

Ad aiutarlo prima era il padre, ma gli anni si fanno sentire, così sono subentrati i nipoti, Andrea e Alessandra. Poi c’è l’amico Casolanetti, che gli fa da consulente.

Trebbiano, Montepulciano e Sangiovese, cui si aggiunge una piccola quantità di Grenache, sono i vitigni coltivati.

Quest’ultimo dà origine a circa 450 bottiglie per annata. La prima risale al 2010. Il vino che ne deriva, fino a poco tempo fa, si chiamava “Rossobordò”. Poi la parola “Bordò”, presumibilmente da “burda” (vite bastarda), non essendo ancora tra i vitigni autorizzati della regione, sta sparendo pian piano da etichette e brochure. Così, quello di Mattoni, oggi è diventato Rossomatò”. Questo vitigno, diffuso nell’ascolano, specie a Cupra Marittima, e conosciuto da tempi immemori dai contadini di quelle terre come “Bordò”, altro non è che una mutazione di Grenache adattatasi al territorio. In Sardegna lo chiamano Cannonau, in Toscana Alicante, sul Trasimeno Gamay, in Liguria Granaccia. Chi potrebbe averlo portato nelle Marche? C’è chi ipotizza che siano stati i pastori sardi.

Sta di fatto che una sperimentazione ampelografica che ne differenziasse i cloni non è stata mai compiuta, quindi chiamarlo Bordò s’è detto essere improprio, vista e considerata anche l’assonanza così forte con Bordeaux.

«Con l’avvento del Rosso Piceno Superiore il vitigno è caduto in disuso, infatti nel disciplinare non è contemplato. È un’uva che non ha una buccia spessa come il Montepulciano ed è più delicato di un Sangiovese. È elegante e ha una bella acidità» spiega, raccontando di come, in fase di fermentazione, durante la follatura, un forte profumo di big babol salti al naso.

Anche nella storia del Grenache c’è di mezzo l’amico Casolanetti. «Poco distante dall’azienda “Oasi degli Angeli” Marco ha ritrovato delle piantine ultracentenarie. Dopodiché, sia io che Giovanni de “Le Caniette” facemmo delle sperimentazioni coinvolgendo l’Assam» spiega, accennando alla sua piccola vigna sperimentale. La fermentazione avviene esclusivamente in acciaio cui segue un affinamento di 24 mesi in barrique.

I vini di Valter finiscono un po’ in tutto il mondo, la cantina si svuota in fretta. Volano in Australia, Giappone, Russia, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada, Francia e Stati Uniti. Di lui, nei suoi vini, c’è tutto il carattere e, il fatto che sotto a 15% vol non troviamo nulla, la dice lunga. Il vino, dunque, è esattamente come piace a lui, e non come il mercato vorrebbe che fosse.

Dalla 06 alla 14: su una mensola sono sistemate le diverse annate di Arshura, il 100% Montepulciano.

Un nome, con il quale Valter ha voluto ricordare i vecchi tempi, la sua infanzia e giovinezza, quando c’era sete di tutto, quando nei cantieri – racconta – non si buttavano via neanche i chiodi storti, perché li raddrizzavano. Una sete “atavica” la definisce Valter, resa ancor più violenta dal suono aspirato dell’h. “Arshura ” è ottimo con l’arrosto. Amarena, cannella, pepe, cioccolato sono i sentori predominanti, ogni minuto che passa si apre e ne spuntano di nuovi.

Come pre arrosto, mentre la carne si cuoce, Valter consiglia invece un bicchiere di Cose cose”, il Sangiovese. Il nome è un po’ particolare: «È un modo locale di dire. Immagina – spiega – che io e te stiamo parlando di qualcosa, arriva un terzo che non voglio che capisca, allora ti dico cose, cose… ».

Per concludere, il bianco da uve 100% Trebbiano, un vitigno passato in sordina, nel quale Mattoni crede ancora. Per la riserva sta spuntando il tappo corona, come era un tempo. Assaggiamo un calice di “Trebbien”, e tutto va bene, anzi… très bien!

 

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Marchigiana, classe 1994. L'infanzia la trascorre in campagna, giocando in mezzo al grano e scorrazzando tra i filari. Dopo la maturità classica si laurea in giurisprudenza. Nel maggio 2021 diventa giornalista pubblicista. Per il vino ha nutrito sempre un profondo affetto, trasformatosi in amore nel 2018. Freelance presso un quotidiano online della provincia di Fermo, di vino scrive per passione sul suo neonato blog e sulla rivista Sommeliers Marche Magazine. Sempre a caccia di storie, di mani sapienti da raccontare, di vitigni da scoprire, di cantine da visitare, sogna che un giorno, tutto questo, possa diventare il suo lavoro.

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