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Nel Cuore della Côte de Beaune: La Sinfonia dello Chardonnay

Firenze, FH55 Grand Hotel Mediterraneo — Salotto del Vino di Massimo Castellani
Una serata dedicata all’anima più autentica della Borgogna bianca, quella che sa emozionare non solo per l’eccellenza dei suoi vini, ma anche per la capacità di raccontare la storia del suolo, del tempo e dell’uomo attraverso il calice. In un incontro intimo ma ricco di suggestioni, presso il “Salotto del Vino” guidato da Massimo Castellani a Firenze, abbiamo attraversato i grandi terroir della Côte de Beaune, scoprendo le molteplici voci dello Chardonnay con una degustazione che è stata, prima di tutto, un viaggio sensoriale.

L’anima profonda di Meursault

Nel mosaico prezioso della Côte de Beaune, dove i filari si rincorrono ordinati lungo colline dolci e baciate dal sole, Meursault si staglia come uno dei nomi più evocativi del vino bianco di Borgogna. Qui, tra i 220 e i 300 metri di altitudine, in un paesaggio cesellato dal tempo e dalla mano dell’uomo, prende vita un terroir che non smette mai di sorprendere per la sua ricchezza e per la sua capacità di raccontare, in ogni bicchiere, storie di pietra, luce e passione.

Antico villaggio vitivinicolo con origini che affondano nei tempi dei Romani, Meursault vanta una superficie di circa 360 ettari, impreziosita da 17 Premier Cru e da numerose parcelle di livello Village che, talvolta, sanno superare in eleganza e personalità anche i cugini più blasonati. Se è vero che la denominazione non può fregiarsi del titolo di Grand Cru, è altrettanto vero che il suo carattere non ne esce minimamente ridimensionato: anzi, sono proprio la diversità geologica e il microclima variegato a offrire un campo di gioco ideale per l’espressività dello Chardonnay.

Qui, la pietra dialoga con la vite. Le marne, i calcari oolitici, l’argilla ricca di ossidi ferrosi e persino tracce di dolomia disegnano una tavolozza minerale che si riflette nitidamente nel calice. Dimenticate lo stereotipo del Meursault burroso e opulento: oggi, accanto alle tipiche note di nocciola, miele e frutta gialla, emergono freschezze agrumate, salinità profonde, tocchi floreali e un’energia tattile che racconta l’evoluzione della regione verso precisione e verticalità. È questa la Meursault che stiamo riscoprendo: un’eleganza viva, fatta di luce, pietra e longevità.

Verticale di emozioni: tre Premier Cru a confronto

  1. Meursault Premier Cru Les Charmes – Marc Gauffroy 2020

Il viaggio inizia tra i filari di Les Charmes, una delle espressioni più emblematiche e generose della denominazione. L’annata 2020 – calda, solare ma bilanciata – regala un vino dal profilo intenso e strutturato. Alla vista, il calice brilla di riflessi dorati su un giallo paglierino pieno, preludio a un bouquet ampio e stratificato: nocciola tostata, burro di arachidi, miele millefiori e fiori di acacia, accarezzati da note di scorza d’agrume e un sussurro esotico di frutto della passione.

L’ingresso al palato è pieno, dolce e vellutato, subito vivificato da una sapidità verticale che sostiene la beva e allunga il sorso. È un Meursault che avvolge e affascina: la cremosità tipica si sposa con un’energia salina che definisce un corpo importante ma mai pesante. Persistente e armonico, è un inno alla generosità e alla precisione.

  1. Meursault Premier Cru Les Genevrières – Jean Monnier 2019

Più sottile e introspettivo, il Genevrières 2019 si muove su corde eleganti e affusolate. Figlio di un’annata più fresca e regolare, il vino esprime un’evoluzione più sottile del legno, lasciando spazio a note di frutta candita, scorza di lime, burro fuso e una leggera tostatura di nocciola. Il naso, fine e stratificato, rivela un profilo più composto ma non meno coinvolgente.

Al gusto, la materia è più snella, l’equilibrio giocato su acidità agrumata e precisione tattile. Meno calorico del precedente, ma più raffinato: si allunga con eleganza in una chiusura salina che rinfresca e invita al sorso successivo. Un vino che esprime la profondità minerale del suo terreno calcareo con una voce più sussurrata, ma di grande fascino.

  1. Meursault Premier Cru Les Perrières – Jérôme Castagnier 2020

A chiudere la triade, il Perrières di Jérôme Castagnier: un vino che porta con sé l’anima artistica del suo produttore.
Jerôme Castagnier è una figura singolare nel panorama borgognone: uomo di vigna e di musica, ha saputo fondere l’esattezza dell’agronomo con la sensibilità del trombettista, trasformando ogni bottiglia in una partitura emozionale. La sua prima vendemmia risale al 2005, ma è dal 2007 che avvia anche un’attività di négociant, acquistando uve selezionate da viticoltori di fiducia. Ed è proprio il caso di questo Meursault Premier Cru Les Perrières 2020, identificabile dalla classica etichetta bianca – emblema di una provenienza non direttamente da vigneti di proprietà.

Ma anche se l’uva non è coltivata direttamente da lui, l’identità del vino è profondamente sua. La vinificazione segue i principi della biodinamica (pur non certificata), ed è improntata a un’idea di rispetto assoluto della materia prima: nessun legno nuovo, nessuna forzatura, solo pazienza e ascolto. Per Castagnier, fare vino è come comporre: serve ritmo, equilibrio, silenzi e crescendo. Non a caso è stato insignito per due anni consecutivi del titolo di Jeunes Talents de Bourgogne, a testimonianza di una visione fresca, ma radicata nella tradizione.

Il Perrières 2020 si presenta cristallino, dorato e brillante, con una consistenza che anticipa la struttura del sorso. Al naso è intenso e stratificato: si muove tra note empireumatiche di nocciola e leggeri accenni fumé, seguite da note confettate; fruttate di pesca matura, susina mirabelle e un tocco tropicale che ricorda la gelatina di mango. Il legno, mai invadente, lascia respirare il frutto, contribuendo solo alla complessità e alla rotondità del bouquet.

L’attacco è teso e vibrante: l’acidità agrumata si unisce subito a una sapidità tagliente, che pulisce e slancia il sorso. È un vino di grande freschezza, quasi a voler sottolineare la vicinanza con Puligny-Montrachet, che qui si traduce in tensione minerale e profondità gustativa. Corposo ma preciso, questo Meursault non rincorre mai la potenza fine a sé stessa: è piuttosto una questione di equilibrio tra la morbidezza burrosa, la forza del suolo e la carezza luminosa dell’annata.

Un vino che potrebbe ambire al titolo di Grand Cru per finezza, struttura e longevità, e che incarna l’essenza più pura e sincera di Meursault: un archetipo. In lui si ritrovano le virtù classiche della denominazione – grassezza elegante, mineralità scolpita, complessità aromatica – interpretate però con uno sguardo contemporaneo, dove l’equilibrio tra natura e uomo è suonato in perfetta armonia.

Conclusione: la sinfonia dello Chardonnay a Meursault

Questi tre Premier Cru, ognuno figlio del suo terroir e del tocco del produttore, mostrano con chiarezza la polifonia stilistica che Meursault è capace di offrire. Dalla generosità calda di Les Charmes, alla sottigliezza affilata di Genevrières, fino alla precisione strutturale di Perrières, il comune denominatore è l’anima minerale e la capacità di evoluzione nel tempo.

Meursault non ha bisogno di Grand Cru per parlare con autorevolezza: la voce della sua pietra, del suo sole e delle mani che la lavorano è già abbastanza potente. E, sorso dopo sorso, ce lo ricorda con stile, rigore e infinita bellezza.

Saint-Aubin: l’eleganza nascosta tra le ombre dei Grands Crus

Protetto dalle alture della Côte d’Or e spesso velato dalla fama dei suoi illustri vicini – Puligny e Chassagne-Montrachet – il piccolo villaggio di Saint-Aubin svela un fascino più riservato, ma non per questo meno profondo. Qui, tra i 300 e i 400 metri di altitudine, la vite affonda le radici in suoli calcarei e ciottolosi, talvolta arroccati su lastre di marna bianca, in un paesaggio segnato da forti escursioni termiche e da una sorprendente diversità pedoclimatica. I vini che ne nascono sono figli del vento e della pietra: tesi, minerali, vibranti, e sempre più apprezzati dagli intenditori.

Tra i lieux-dits più celebrati svetta Murgers des Dents de Chien, un cru dal nome evocativo – “le pareti dei denti di cane” – che racconta la frastagliata bellezza delle mura a secco che segnano il paesaggio e delimitano i vigneti. Quasi un giardino segreto ai confini con Puligny-Montrachet, Murgers si estende lungo un crinale esposto a sud, sfiorando i Gran Cru di Montrachet. A poca distanza, En Remilly e La Chatenière completano un trittico di cru che oggi rappresentano la nuova frontiera del bianco borgognone di grande precisione.

Saint-Aubin Premier Cru Murgers des Dents de Chien 2023

Un vino che sussurra più che urlare, ma la cui voce è limpida e sicura. Figlio di una vigna storica, impiantata nel 1946, posta a sud, proprio al confine con i nobili terroir di Puligny e con l’ombra lunga di Chevalier-Montrachet. La vinificazione segue un percorso tradizionale ma attento: fermentazione e affinamento in barrique sulle fecce fini per 12 mesi, seguiti da un periodo in acciaio inox che restituisce brillantezza e tensione.

Nel calice, il vino appare cristallino, con riflessi verdolini che ne annunciano la freschezza. Il naso è immediato e preciso: glicine e fiori bianchi, poi bergamotto e lime, seguiti da un frutto più delicato – pesca bianca, mandorla fresca – che racconta di un’eleganza sottile, senza eccessi. Nessuna nota burrosa o tostata qui: domina la freschezza, la purezza del varietale.

L’assaggio è verticale, snello, teso. L’acidità è affilata ma mai scomposta, e accompagna un finale dove la mineralità saporita si fonde a un ritorno agrumato che persiste con discreta potenza. È un vino di profondità silenziosa, meno carnoso rispetto ai Meursault degustati, ma capace di colpire per la sua freschezza aromatica e chiarezza espressiva. Una raffinatezza scolpita nella pietra.

 

Puligny-Montrachet: la voce della pietra e della luce

Puligny è forse l’emblema più puro della raffinatezza dello Chardonnay. Qui i suoli calcarei parlano forte, e l’identità dei vini si affina in uno stile intransigente e verticale, dove la mineralità supera la rotondità, e la struttura è cesellata come una scultura classica. A differenza dei suoi vicini – Meursault più rotondo, Chassagne più corposo – Puligny produce bianchi di nobile austerità, luminosi ma profondi, con grande potenziale evolutivo.

1) Puligny-Montrachet Premier Cru Sous les Puits – Desfontaine 2021

Il Premier Cru Sous les Puits, ovvero “sotto i pozzi”, prende il nome da una sorgente naturale che sgorga poco distante dalle vigne, a 370 metri di altitudine. Piantate oltre 80 anni fa nel Hameau de Blagny, queste viti godono di un’esposizione sud-est che regala equilibrio tra luce e freschezza. Dopo una fermentazione malolattica completa, il vino affina per 16-18 mesi in pièce da 228 litri, secondo la più rigorosa tradizione borgognona.

Il calice rivela un giallo dorato luminoso, con consistenza evidente. Il naso si apre con frutto deciso e maturo, poi note vanigliate delicate, accenni di anice e mandorla tostata, e un soffio minerale, quasi salmastro.

L’assaggio conferma quanto il naso ha già lasciato intuire: una freschezza agrumata tagliente, dove sussurri di lime e pompelmo si intrecciano con la salinità. La bocca è accarezzata da una trama finissima, vibrante, che scorre dritta e precisa come una lama su pietra. La mineralità è saporita, salivante, quasi marina, e accompagna il sorso verso una chiusura più morbida, appena accennata, che equilibra l’energia iniziale senza smorzarla.

È un vino snello, affilato, ma dotato di profondità e tensione interna. Puligny qui si esprime nella sua veste più classica e nitida, quella di uno Chardonnay che non ha bisogno di peso per mostrarsi autorevole. La sua forza è nella trasparenza e nella verticalità, nella capacità di restare a lungo sulla lingua senza mai diventare opulento. Un Premier Cru che parla con chiarezza e autorevolezza.

2) Puligny-Montrachet – Jérôme Castagnier 2022

Con l’annata 2022 entriamo in un registro diverso: un millesimo generoso e soleggiato, che ha portato vini più concentrati, dallo sviluppo aromatico ampio e corposo. Castagnier, con il suo approccio artigianale e attento, riesce però a domare la forza dell’annata e a restituire un Puligny potente, sì, ma mai privo di eleganza.

Nel calice si presenta cristallino, dorato e consistente, con una luce intensa che prelude a una materia piena. Il naso è subito profondo, stratificato, quasi vellutato: nocciola tostata, mandorla, burro fuso, un tocco affumicato e un sottofondo minerale che emerge con decisione. La frutta a polpa gialla, pur presente, resta in secondo piano, compressa sotto la potenza delle note più evolute e rotonde. È un vino che parla con la voce della maturità, più calda e sensuale.

Un vino che si muove con densità ed eleganza, più ricco del precedente, ma con un’identità chiara: profondità, materia e armonia. In lui si riflette la mano di un vignaiolo che conosce il ritmo della terra – e della musica – e sa orchestrare complessità e potenza senza perdere in equilibrio.

L’assaggio è un gioco di contrasti ben calibrati: l’attacco agrumato, teso e snello, colpisce per freschezza e precisione, mentre il finale si distende su toni più morbidi e avvolgenti, dove la componente glicerica ha il sopravvento. È come se il vino, dopo un inizio slanciato, preferisse adagiarsi in una matericità gustosa, più confortante che dinamica.

Rispetto ai cru più alti e scolpiti, questo Puligny mostra una dimensione più terrena e diretta, figlia di un terroir più argilloso, che conferisce struttura ma limita leggermente l’estensione gustativa. La persistenza è più contenuta, ma quello che perde in lunghezza, lo guadagna in pienezza e rotondità. È un vino immediato, generoso, che invita alla beva più che alla contemplazione, con una golosità che resta elegante, senza mai diventare eccessiva.

È un Puligny di pancia più che di testa, che esprime con sincerità il carattere dell’annata e del luogo. E se non possiede la tensione granitica di un cru d’altura, conquista per la sua autenticità materica, per quella burrosità appena salina che riempie la bocca e lascia un ricordo di nocciola calda e scorza d’agrume candita. Un vino gustoso, ben fatto, che racconta l’interpretazione personale di Jérôme Castagnier: uno stile che non cerca l’effetto, ma l’armonia tra forza e accessibilità.


Chassagne-Montrachet: la forza della materia, l’equilibrio del terroir

Se Puligny rappresenta l’anima più scultorea e Meursault la carezza del burro, Chassagne-Montrachet è l’armonia tra terra e luce, tra grassezza e tensione, tra ampiezza e definizione. È un territorio di passaggio – geografico e stilistico – in cui lo Chardonnay trova una delle sue espressioni più complesse e tridimensionali. Qui i suoli si alternano tra marne calcaree, argille ferruginose e vene di roccia più compatta, generando vini di carattere più deciso, spesso più salini, corposi, energici, ma con una freschezza che ne impedisce ogni ridondanza.

È anche una delle poche zone della Côte de Beaune dove lo Chardonnay convive storicamente con il Pinot Noir, ma in questa selezione ci soffermiamo esclusivamente sulla voce bianca del territorio.

1) Chassagne-Montrachet Premier Cru Blanchot-Dessus – Vincent Girardin 2019

Il Blanchot-Dessus è un vigneto di confine e di nobiltà: appena sotto il Grand Cru Le Montrachet, ma con un’identità così chiara da meritare, a detta di molti, lo stesso titolo; in effetti fino agli anni ’30 del secolo scorso era proposto proprio come “Blanchot-Batard Montrachet” (come si evince anche dalle carte catastali dell’epoca), una continuazione, quindi, naturale del Montrachet Grand Cru, dal quale si separa di pochi metri. Qui, a 240 metri di altezza, il suolo marnoso e ricco di argille scure e ciottoli calcarei plasma un vino che unisce ricchezza aromatica e slancio verticale con rara eleganza.

Al calice si presenta luminoso, dorato, quasi regale, con riflessi che raccontano concentrazione e promessa evolutiva. Il naso è sontuoso, stratificato: cedro candito, burro di arachidi, miele chiaro e purea di mela cotta si inseguono su uno sfondo che vira verso la salinità marina, quasi iodica. L’uso del legno è misurato e fine, funzionale ad amplificare la voce del frutto.

L’assaggio è un crescendo: morbidezza e rotondità in apertura, poi una tensione agrumata che ripulisce e rilancia, e infine una chiusura potente, lunga, minerale. Un Premier Cru che parla il linguaggio della raffinatezza, con una presenza aristocratica, ma mai rigida: potenza serena, armonia piena.

2) Chassagne-Montrachet Premier Cru Les Chenevottes – Bernard Rion 2021

Un vino che nasce nella parte nord della denominazione, là dove un tempo si coltivava la canapa, e che oggi dà origine a uno Chardonnay di espressività giocosa e slancio vibrante. Le fermentazioni avvengono in pièce di rovere, che donano volume senza appesantire.

Nel calice è cristallino, dorato e brillante, e al naso emerge subito la frutta, netta, matura ma non eccessiva. Il primo impatto è vanigliato e dolce, ma lascia presto spazio a note di susina Mirabelle, ananas fresco, cedro e agrume dolce, con una sfumatura esotica sempre trattenuta.

All’assaggio è morbido ma ritmato, con una linea acida ben tracciata e una salinità saporita che regge e allunga il sorso. La chiusura è di bella persistenza, fatta di mandorla fresca, scorza d’agrume e sale marino, che invitano immediatamente al secondo calice. Un vino vivace, solare, profondo, che rappresenta un volto più fresco e immediato di Chassagne, senza rinunciare alla complessità.


3) Chassagne-Montrachet Premier Cru Clos Saint Jean – Borgeot 2020

Il Clos Saint Jean si distingue per la sua posizione privilegiata e per un suolo ciottoloso, ricco di ferro, che regala struttura e potenza. Il 2020 è un’annata calda e generosa, e questo vino ne incarna a pieno lo spirito.

Alla vista è denso, dorato, luminoso, e già al naso promette una ricchezza sensoriale opulenta: vaniglia, ananas in gelatina, scorza d’arancia candita, burro fuso e nocciole tostate si mescolano in un profilo aromatico goloso, ma mai stucchevole.

In bocca il vino è ampio, avvolgente, con una materia che riempie il palato in ogni direzione, ma senza perdere definizione. La salinità affiora nel cuore del sorso, dando respiro alla struttura e regalando profondità e sapore. È un bianco che sembra avere l’anima di un rosso, nella sua pienezza e nel modo in cui occupa lo spazio. La chiusura è lunga, calda, ma ben bilanciata da un ritorno minerale che ne sigilla la fine.

Un vino “rossista”, come si dice in gergo, che piacerà a chi ama la materia e la generosità, ma che sa stupire anche per il rigore con cui si fa gestire al palato.

Corton-Charlemagne: l’eco del gesso, l’autorità della pietra

Salendo verso nord, oltre i profili già noti di Meursault, Puligny e Chassagne, si incontra un paesaggio che cambia registro: Corton-Charlemagne è il più ampio Grand Cru bianco della Côte de Beaune, con 72 ettari vitati che si estendono tra le pendenze esposte a sud-ovest della collina di Corton. Qui nasce un vino di grande purezza e forza interiore, dove la mineralità non è un ornamento, ma l’ossatura stessa del vino.

I suoli calcarei bianchi, friabili, spesso mescolati a marne leggere, generano vini essenziali, rigorosi, che rifuggono la teatralità per parlare con la lingua della sottrazione e dell’autenticità.

Corton-Charlemagne Grand Cru – Domaine Rapet Père & Fils 2020

Nel calice si presenta giallo paglierino, luminoso, ancora giovane nella veste ma già profondo nei riflessi. Il naso, inizialmente misurato, si apre gradualmente con note vegetali fini di erbe aromatiche (dragoncello, timo limonato), seguite da frutta bianca croccante, mandorla fresca e una delicata scia fumé. Il passaggio in legno c’è, ma non detta legge: accompagna in sottofondo, lasciando che sia il terroir a parlare in primo piano.

Al palato è teso, con un’acidità affilata che struttura il sorso senza appesantirlo. La frutta si ritrova ed incontra l’anima salina e gessosa, fino a una chiusura lunghissima. Un Corton-Charlemagne che si beve oggi con ammirazione e si immagina domani con reverenza.

Conclusione: un viaggio tra le forme dello Chardonnay – e un vertice emozionale

Attraversare i grandi terroir della Côte de Beaune in una sola serata è come ascoltare variazioni sullo stesso tema, suonate da strumenti diversi: ogni AOC, ogni cru, ogni produttore aggiunge una voce, un dettaglio, una sensibilità.

Abbiamo vissuto la pienezza scultorea di Meursault, la sottigliezza agrumata di Saint-Aubin, la verticalità cesellata di Puligny, la matericità luminosa di Chassagne, fino ad arrivare alla severità elegante di Corton-Charlemagne.

Ma tra tutte le parole e i suoni di questa serata, ce n’è uno che ha risuonato più forte nel cuore.

Il mio vino preferito della degustazione?


Chassagne-Montrachet Premier Cru Blanchot-Dessus – Vincent Girardin 2019: un vino che incarna la grandezza senza forzature, l’eleganza senza rigidità, il carattere senza eccessi.

Alla fine di questa degustazione è stato chiaro che in Borgogna, lo Chardonnay non parla, ma sussurra con autorevole eleganza.
E chi ha pazienza di ascoltarlo, scopre che ogni sorso è un frammento di paesaggio, luce riflessa sulla pietra, silenzio inciso nella marna.
Non abbiamo solo bevuto vino, questa sera. Abbiamo camminato tra vigne, che ricordano il respiro del vento, annusato la storia scritta nei solchi dei filari, assaporato un vino che matura pazientemente nel tempo.
Alla fine, resta un’emozione che non si dimentica. E la sensazione che certi luoghi, oltre che visitarli, si debbano ascoltare in silenzio, calice alla mano.

 

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Laureata in Cultura e Stilismo della Moda e sommelier AIS, da sempre ha fatto della scrittura il modo più naturale per descrivere le sue emozioni. Con i piedi ben piantati in vigna e lo sguardo sempre curioso, vive il mondo con eccentricità gentile, cercando in ogni dettaglio quella scintilla capace di trasformarsi in racconto. Per lei, un calice è come un libro, che legge e racconta con umiltà. Scrive come cammina tra i filari: con rispetto, meraviglia e una sana dose di autenticità. Le sue parole non vogliono spiegare, ma far emozionare e magari, per un attimo, far tornare chi legge a sentirsi a casa.

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