“Il vino capovolto” di Jacky Rigaux-Sandro Sangiorgi vs “Il Respiro del Vino” di Luigi Moio
Le gelate di aprile ed un’estate siccitosa come quella appena passata, impongono una riflessione sui cambiamenti climatici in corso ed aprono la strada ad alcune considerazioni sul mondo della viticoltura.
Di grande aiuto può essere a questo proposito la lettura di due pubblicazioni di posizioni tra loro molto differenti.
“Il vino capovolto”, è un libro recente, edito da Porthos, e contiene due sezioni. La prima parte è di Jacky Rigaux, responsabile della formazione continua presso l’Université de Bourgogne, e s’intitola “La degustazione geosensoriale”, un metodo che aiuta a comprendere i vini di terroir, prodotti da vignaioli che praticano una viticoltura il più possibile “vicina alla natura”. Questo tipo di degustazione si contrappone all’analisi sensoriale, maggiormente diffusa e associata a una visione tecnica ed enologica.
La seconda parte è una raccolta di scritti degli ultimi sei anni di Sandro Sangiorgi, sommelier, critico, scrittore e fondatore di Porthos che scaturiscono dall’attività di divulgazione dell’associazione “Porthos racconta”.
“Il respiro del vino”, edito da Mondatori e uscito nelle librerie nel 2016, è invece opera di Luigi Moio, professore ordinario di Enologia all’Università Federico II di Napoli e presidente della commissione di enologia dell’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino con sede a Parigi). Qui l’approccio è tecnico e scientifico, si parte dall’analisi degli organi del gusto e dell’olfatto per poi approfondire l’analisi sensoriale soprattutto attraverso una ampia disanima di sentori olfattivi (rigorosamente collegati a molecole odorose).
Senza entrare troppo nel tecnico vorremmo dare l’idea delle differenti argomentazioni espresse nelle due pubblicazioni attraverso pochissimi estratti.
Tecnica di degustazione e mineralità
Da “Il vino capovolto” Jacky Rigaux: “ La degustazione geosensoriale s’interessa ai luoghi di nascita del vino, ai diversi minerali presenti nei terreni (calcarei, granitici, silicei, vulcanici ecc.), e pone l’accento sull’aspetto tattile e sulla sapidità, senza ignorare gli aromi, colti soprattutto nel retro-olfatto. Potremmo fare un parallelo con l’essere umano. Freud ha scoperto l’inconscio. Questo, che ha forgiato la nostra personalità, agisce a nostra insaputa nella messa in atto dei comportamenti, nel nostro modo di stare al mondo. Nel vino l’inconscio corrisponde alla mineralità. Finora non intaccata dall’enologia moderna, questa marchia il vino con la sua impronta indelebile, diversa da un luogo all’altro, appassionando il degustatore illuminato per le sorprese che regala.”….”È una buona notizia per i vini di terroir che non si sappia ancora perfettamente come i minerali passino nel vino; per ora questa ignoranza rende impossibile aggiungerli artificialmente.”
Jacky Rigaux esprime la sua contrarietà alla degustazione alla cieca, “ che spodesta la degustazione geosensoriale, destrutturando il vino” facendolo “diventare oggetto di concorso ed entrare nell’universo del punteggio.” Sottolinea inoltre come la fase gustativa debba riconquistare un ruolo centrale nella degustazione, ruolo che invece ha perso a favore di quella olfattiva.
Da “Il respiro del vino” di Luigi Moio: “ Passando poi all’aspetto puramente sensoriale, in alcuni studi condotti da un gruppo di ricercatori dell’Università della Borgogna, il cui scopo era quello di comprendere come gli esperti interpretino il carattere della mineralità e se vi sia consenso nella sua valutazione, è emersa la completa assenza di una definizione sensoriale univoca e significativa per questo descrittore. Comunque, anche se il significato sensoriale di questo termine non è del tutto chiaro, è un descrittore molto di moda, perché probabilmente richiama un rapporto quasi fisico con un luogo, soddisfacendo la ricerca delle origini. A onor del vero anch’io uso il termine minerale ma associato maggiormente all’acidità e alla purezza estrema, soprattutto in riferimento al vino bianco. Un vino minerale per me è un vino purissimo, che mi fa pensare alla purezza di un minerale che sfida indenne il tempo. È un vino incontaminato nel quale il processo di decadimento olfattivo è rallentato al massimo e lo spazio temporale della vita odorosa del vino è dilatato il più possibile”
Lieviti selezionati o lieviti indigeni ?
Da “Il vino capovolto” Jacky Rigaux: “Si tratta di aver fiducia nei propri frutti, di lasciare che completino la trasformazione in vino con i loro lieviti indigeni. Ogni uva, prodotto del suo terroir, ha una vita propria”.
“A un vino tecnico si è data una direzione, lo si è plasmato in funzione di una scelta gustativa in linea con le aspettative del consumatore. Un vino di terroir, invece, ha una trama e un’originalità frutto della terra e del cielo”.
Da “Il respiro del vino” di Luigi Moio: “..i lieviti di un territorio vengono spesso definiti <<autoctoni>> e si sostiene che poiché sono selezionati in quel particolare ambiente, siano i migliori per produrre vini con peculiari caratteri di tipicità del luogo. Alcuni autori sostengono che ceppi simili possono essere riscontrati nella cantina in anni successivi, rivelandosi fondamentali per la buona riuscita di una fermentazione spontanea. Altri, invece, dimostrano che i dati a sostegno di queste ipotesi sono ancora molto limitati e che soprattutto non tengono conto di molti altri fattori che influenzano le dinamiche di popolazione durante la fermentazione spontanea, come per esempio il grado di maturazione dell’uva, lo stato sanitario della stessa, le tecniche di ammostatura, nonché le operazioni di sanitizzazione degli attrezzi di cantina. In ogni caso l’aspetto importante da tener presente è che le poche cellule di saccharomyces cerevisiae, ammesso che in vigna siano presenti, non sanno per nulla che un uomo un giorno raccoglierà quell’uva per farne vino. Il loro principale obiettivo non è trasformare l’uva nel miglior vino possibile, ma semplicemente quello di cercare una fonte zuccherina per crescere e riprodursi. Pertanto sembra impossibile che ceppi di lieviti che dovessero trovarsi sui grappoli di una varietà di uva, ipotizziamo di Sangiovese, di cui non sanno assolutamente nulla, siano in grado di farne il miglior vino possibile. La scarsità di saccharomyces cerevisiae sulle uve e la sua abbondanza nei mosti dimostrano, invece, che la vera pressione selettiva è esercitata proprio dal mosto in fermentazione e non dalla varietà dell’uva e nemmeno dall’habitat naturale…”
Questi sono solo alcuni dei rilievi, che emergono dalla lettura delle due pubblicazioni, ma molti altri argomenti di discussione potrebbero essere sollevati.
Chiaro che si tratta di due binari di pensiero destinati (come le parallele nella geometria tradizionale) a non incontrarsi… neppure all’infinito. Ma la “geometria” del vino e del gusto in genere, con la quota di soggettività marcata che la contraddistingue, può tranquillamente considerarsi post euclidea. E gli spunti che due testi e tesi pur così discordanti riescono a offrire, richiederebbero di incontrarsi (al contrario delle parallele) in una discussione aperta e stimolante davanti a un calice da interpretare.
Maurizio Valeriani
Il vino capovolto, edizioni Porthos, 140 pagine, prezzo di copertina 15 euro
Il respiro del vino, edizioni Mondadori, 503 pagine, prezzo di copertina 26 euro
Giornalista enogastronomico, una laurea cum laude in Economia e Commercio all'Università La Sapienza di Roma, giudice in diversi concorsi internazionali, docente F.I.S.A.R.. Ha una storia che comprende collaborazioni con Guide di settore. Per citare solo le ultime : Slow Wine (Responsabile per la Sardegna edizioni 2015 e 2016), I Vini de L'Espresso (vice-curatore e coordinatore nazionale edizioni 2017 e 2018), I Ristoranti d'Italia de L'Espresso (edizioni dalla 2010 alla 2018). Collabora con le testate: www.lucianopignataro.it , www.repubblica.it/sapori. Ha scritto alcuni articoli sul quotidiano "Il Mattino" e su www.slowine.it. Ha una passione sfrenata per quel piccolo continente che prende il nome di "Sardegna", per le sue terre e per la sua gente.
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