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L’oro nero e le bolle del Lambrusco – Modena, città per tutti i gusti

Modena, punto nevralgico del ducato d’Este in epoca rinascimentale, è un piccolo centro dal cuore grande, sempre in fermento come i suoi abitanti. Una città che si muove, in tutti i “sensi”. Dalla tradizione del Lambrusco alla preziosa produzione dell’aceto balsamico, rigorosamente tradizionale Dop, accanto al più noto Igp, sui mercati di tutto il mondo.

L’autunno è anche il periodo dei Festival, in questi giorni si è svolto quello dedicato alla Filosofia, con nomi di grandissimo rilievo. La mente deve essere nutrita e a Modena non mancano le occasioni, come quella che per noi Piacere Modena ha organizzato presso il ristorante Strada Facendo a cura dello chef Emilio Barbieri, con piatti tradizionali, dai tortellini a “il gnocco fritto” (in dialetto emiliano si dice così)  e prosciutto, conditi rigorosamente con l’aceto balsamico tradizionale.

Chi ci ha guidato alla scoperta di Modena e dei suoi gioielli enogastronomici

Piacere Modena riunisce e rappresenta i Consorzi dei prodotti Dop e Igp della provincia di Modena (Lambrusco Dop, Parmigiano Reggiano, prosciutto di Modena e Aceto balsamico Tradizionale di Modena Dop, e le Igp con l’aceto balsamico, lo zampone e cotechino Modena e la Ciliegia di Vignola), con attività rivolte a pubblico e stampa, e corsi di formazione in collaborazione con istituti alberghieri.

Con Beatrice Berselli e Milena Ferrari, project manager di Piacere Modena, conoscere i Consorzi di Tutela e le loro missioni è molto semplice. Si promuove l’approfondimento di una regione che ha più prodotti certificati al mondo e per questo vanno tutelati dalla contraffazione, in tanti mercati, non da meno quello modenese, solo per fare un esempio, dove l’aceto balsamico tradizionale Dop viene riprodotto in versioni che nulla hanno a che vedere con quella originale.  Di questo sono ben consapevoli Leonardo Giacobazzi vicepresidente del Consorzio Aceto balsamico tradizionale Dop e Mariangela Grosoli vicepresidente del Consorzio Aceto balsamico Igp.

Beatrice e Milena di Piacere Modena e Niccolò Tempestini, ufficio stampa (Marte Comunicazione) ci hanno accompagnato in queste due giornate come Virgilio nei gironi danteschi, solo che qui non di inferno o purgatorio si parla ma di un paradiso di gusto.

Aceto balsamico tradizionale di Modena Dop

L’Aceto balsamico tradizionale Dop, quello che chiamano l’oro nero di Modena, si produce in minime quantità, meno di 17mila bottiglie l’anno, in confronto al suo vicino parente che è l’Igp, con 93 milioni di litri l’anno circa. Il tradizionale è un prodotto di nicchia, che solo alcune famiglie producono, spesso conservato in caveau e non messo sempre in vendita, ma usato come dono in occasioni speciali. Anticamente era la dote delle figlie femmine. La sua storia risale ai tempi dell’antica Roma, forse anche prima.

Due le domande, perché proprio qui a Modena e come si produce.

A raccontarcelo è Dia Morselli, detentrice dell’antica ricetta e delle modalità per avere un tradizionale perfetto. La incontriamo in acetaia, a Modena nel Palazzo Comunale, dove riposano le sue botticelle. Le tre file di botti, di varia grandezza dalla badessa (la botte madre per il mosto) alla batteria cosiddetta ghirlandina, tutte in fila come monache in ritiro spirituale. Nella stanza, la soffitta del Palazzo, l’acido acetico mette il suo timbro impregnando le pareti, la temperatura è perfetta qui e tutto proietta verso un passato protetto e tutelato.

Gli antichi romani passavano per queste campagne e lasciavano i più anziani a prendere dimora e avviare le attività agricole. Si piantavano viti e si produceva non solo il vino ma anche i cibi che poi avrebbero contribuito a risanare le stanche membra dei soldati al ritorno dalla guerra. Anche Virgilio raccontava di un mosto dolce che si faceva con l’uva. E dall’antica Roma a oggi si passa per Canossa, dove Enrico III di Franconia si fermò per chiedere al Papa Bonifacio il Laudatum Acetum (siamo nell’anno 1000).

Si deve aspettare l’800 per avere una ricetta scritta, e la mano fu di Francesco Agazzotti che per la prima volta mise nero su bianco le fasi dell’aceto. Il testo è una lettera ad un amico che viene riprodotta sulle scatole delle preziose bottigliette a memoria di un disciplinare che da allora non è mai mutato. Il 1900 sarà il secolo della fase legislativa, del 1965 è la legge quadro sugli aceti e nel 1983 esce il primo disciplinare ufficiale del Dop. Si deve comprendere che le fasi della produzione dell’aceto sono delicate, precise, dettate da tempistiche a cui non si può derogare. I controlli avvengono sui locali utilizzati, le botti, i travasi, e non da ultimo è il contenitore a fare davvero la differenza. Una boccetta ideata da Giorgetto Giugiaro nel 1987, un’ampollina appoggiata su una base, tutto in vetro, senza tagli, sul top un versatore in sughero e vetro per centellinare le quantità.

L’aceto è donna, da sempre. Gli uomini si occupavano del vino e l’aceto era tutto al femminile. Ci vuole pazienza, metodo, costanza. La stessa Dia Morselli ci racconta che è stata lei a creare le batterie che oggi vediamo nella soffitta del Palazzo, con l’aiuto solo dell’anziano padre, all’epoca ormai libero e disponibile per consigliarla. Ma la scelta dei legni è opera sua, tutti autoctoni, rovere, castagno, gelso e ginepro. Le botti variano in grandezza e spessore, le più vecchie ormai inerti, laddove possibile vengono riutilizzate creando al loro stesso interno una nuova botte. Di travaso in travaso che viene fatto una volta l’anno, guai a saltare, l’aceto arriva fino ai 12 anni e si chiama affinato, già molto identitario, per arrivare ai 25 anni, l’extra vecchio che è foriero di un’esperienza davvero unica nel suo genere. Da lì in poi si parla di un aceto eternamente venticinquenne, perché negli anni verrà rimboccato con aceto più giovane, per questo diffidare sempre quando si legge, su contenitori non autorizzati, un’età superiore ai 25 e un numero indefinito di travasi. È solo slogan per turisti poco attenti o ignari di quello che vanno ad acquistare. Lo abbiamo assaggiato abbinato al gelato, al parmigiano e al prosciutto con lo gnocco fritto, o “il gnocco” fritto, come dicono qui.

Il Lambrusco. Alla scoperta del Grasparossa.

Modena e Bologna vicine e rivali da sempre. Simbolo è la Secchia Rapita che vediamo nelle stanze del Palazzo Comunale, un semplice secchio anche piuttosto malandato, che è il segno della vittoria di Modena, anche in tempi recenti quando i bolognesi tentarono di riprendersi l’oggetto conteso, tanto che oggi è chiusa dentro una teca per evitare altri “attentati”. A renderle vicine però è la viticoltura, qui raccontata dal Lambrusco, Sorbara e Grasparossa. Quello di Sorbara è più noto, già in veste metodo classico, mentre Grasparossa, varietà molto diffusa, si valorizza specie in collina dove l’argilla dona corpo e un’altrimenti insolita acidità, tanto che cantine cooperative come Settecani, dopo l’esempio di Sorbara, l’ha spumantizzata.

Con Cantina Settecani (26 ettari) siamo a Castelvetro di Modena, da cui la Doc Grasparossa di Castelvetro. Una realtà nata dalla volontà di 48 proprietari terrieri, oggi sono 128 i soci e i comuni dei conferitori sono Castelvetro, Spilamberto e Castelnuovo. Il fabbricato risale al 1928, accanto vi era una ferrovia di cui oggi rimane il ricordo e il nome deriva da una leggenda. Si diceva che nelle vicinanze ci fossero degli operai che imprecavano a voce alta, e che il parroco locale li avesse per questo trasformati in cani. Erano sette. Oggi la cantina è molto ampia, i silos sono altissimi, seguiamo con la guida di Daniela Vaschieri, produttrice e vicepresidente di Cantina Settecani, tutta la lavorazione dell’uva, anche della nostra, raccolta a mano.

I grappoli di Grasparossa sono grandi e con acini compatti, che in occasione della vendemmia abbiamo osservato da vicino. A far da Cicerone tra i filari il presidente della cantina, Paolo Martinelli, 60 anni, uomo dalle mani grandissime e rovinate dal sole e dalla fatica. Alla sua cinquantesima vendemmia (ha iniziato quando a dieci anni tornato da scuola, trascorreva le sue giornate in vigna), per lui la vite non ha segreti. Nonno e papà sono arrivati nel 1956, cantina, vigneti e abitazioni sono tutti molto vicini, un ecosistema che funziona bene.  La varietà si chiama così perché il raspo, quando matura, prende un colore rossiccio e si adatta bene all’argilla, rispetto alle zone più basse dove regna la sabbia. Secco, semisecco o amabile? Il Grasparossa si declina in base alle richieste di mercato, quando Andrea Graziosi, l’enologo dell’azienda, dal vino in autoclave decide le diverse destinazioni. Come tutti i Lambrusco è un vino giovane, non si adatta all’invecchiamento e quest’anno la novità è la versione spumantizzata. Esiste un clone di Grasparossa, molto vecchio, diverso da quello comune usato per il Lambrusco versione frizzante, che regala una bella acidità e meno note amare al gusto. Il nome dello spumante 24 mesi è Settimo Cielo, Grasparossa dop Rosé Brut, con uve provenienti da un cru situato a 400 metri di altezza., capace di raccogliere in sé la vivacità e la freschezza di queste terre. Lunga tradizione ma anche occhio al futuro e alle nuove generazioni di consumatori. In cantina tra le linee dei vini di Settecani, una menzione particolare va ai Vini del Re,  con Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Dop, Frizzante Secco, dal profumo intenso di frutti rossi maturi e un gusto piacevole, fresco e avvolgente. Un colore intenso dai riflessi violacei magnifico.

Il Lambrusco si vendemmiava ad ottobre, oggi le temperature obbligano a raccolte tempestive già a metà settembre, quasi tutto è meccanizzato, come ci dice anche il Presidente del Consorzio di Tutela del Lambrusco, per tutelare la qualità delle uve. Un unicum nel suo genere ribadisce il presidente Claudio Biondi, che abbiamo intervistato. L’unico vino frizzante secco in Italia, e quest’anno più che mai a fronte di una quantità inferiore, la qualità è eccellente.

Giusto qualche dato. Doc dal 1970, esistono le Doc Lambrusco Sorbara, Grasparossa, Salamino, Reggiano o Modena (blend dei tre Lambrusco modenesi), mentre l’Igt è un Lambrusco generico. Da disciplinare si prevedono 180 quintali/ettaro, il Modena arriva a 230. L’Igt ha una resa di 290 quintali/ettaro. Il 90% si trova tra Modena e Reggio, su quasi 11mila ettari per 147 milioni di bottiglie, di cui 13 solo in America. In Italia la vendita è per lo più locale e qualche regione del centro e del Nord. Interessante sarebbe il mercato tedesco se non cercasse sempre prezzi a ribasso. Il Lambrusco è molto richiesto dal mercato messicano.

Nato come alimento quando nelle campagne si faceva merenda con il vino, negli ultimi anni si è adattato alle nuove tendenze, come aperitivo, con grado alcolico notoriamente ridotto, massimo 12 gradi, è il vino delle nuove generazioni, che in controtendenza bevono meno e si affacciano volentieri alla mixology.  Protagonista anche di una ricerca molto attuale sulle varietà resistenti, già dal 2017, con l’ipotesi di innesti, e l’introduzione di un gene (non Ogm), da ibridazione. Sarebbe la nuova frontiera per arrivare a livelli di trattamenti chimici quasi a zero, con il presupposto di mantenerne le caratteristiche.

Modena è gusto e anche storia, che vale la pena ripercorrere attraverso un tour dalla piazza Grande alla torre Ghirlandina che cade letteralmente, a causa di un cedimento del terreno (qui scorreva tanta acqua, c’era la darsena e Modena era come una piccola Venezia), sulla parete laterale del Duomo, magnifico monumento in stile gotico di epoca medievale. All’interno sculture in terracotta e nella Cripta, dove giace il santo esorcista (Gimignano aveva questo talento), la Madonna della Pappa, unico esemplare nella storia dell’arte di tutti i tempi. Un magnifico rosone e all’esterno dei bellissimi leoni che accolgono il visitatore. La bibbia di pietra, con i racconti per quelli che non sapevano leggere. Tra le sale del Palazzo Comunale è facile risalire alle tappe della storia di questa città di origine etrusca, il suo nome deriva infatti da Mutina, che sta per tomba. Affreschi che ricordano varie tappe delle vicende che hanno poi fatto di Modena una città guerriera e vittoriosa, a fronte della rivale Bologna. Bellissima la sala del Fuoco chiamata così per la presenza di un grande camino che si teneva sempre acceso per gli ambulanti che vendevano le merci in piazza e che, infreddoliti, salivano a scaldarsi, era il 1545.

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Classe 1976, mi laureo in filologia classica alla Sapienza di Roma. Da sempre appassionata alla storia antica e alle lingue classiche, inizio a scrivere per giornali e testate online fin da molto giovane, occupandomi di costume e spettacoli. Divento prima pubblicista e poi professionista nel 2024, occupandomi di vino dal 2019, quando inizio a curare la rubrica Sulla Strada del Vino insieme al mio collaboratore Massimo Casali. Non ho ancora un blog e scrivo per chi ha voglia di approfondire e capire il vino non solo come consumatore, convinta che questo settore possa aprire scenari e mondi magnifici e inaspettati.

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