Accadono con cadenza giubiliare le occasioni che ho di partecipare a verticali del celebre lieo di San Leonardo, a rimarcare una sorta di legame che il vino ha col divino, del resto non ha esso il nome di un santo?
La precedente, organizzata da Slow Food all’hotel Columbus di Roma, avvenne infatti a ottobre dell’anno santo 2000, poco dopo che il pontefice Giovanni Paolo II celebrasse il giubileo dei vescovi, dei quali, come vedremo, la storia del San Leonardo è piena.
Di quell’evento serbo ancora un sublime ricordo e traccia: prevedeva in degustazione le annate 1990 – 1991 – 1993 – 1994 – 1995 – 1996 – 1997 con una predilezione personale che in quel giorno coincise con un insuperabile 1990, vero e proprio Haut-Brion in terra trentina, e il 1996.
A distanza di cinque lustri, in un novembre inoltrato che appena accenna di adempiere la sua funzione di mese autunnale, grazie all’A.I.S. Lazio delegazione di Roma presso l’hotel A. ROMA Lifestyle HOTEL, e condotta dal marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga e dal sommelier A.I.S. André Senoner professionista dell’anno 2022, partecipo alla seconda verticale della mia esistenza di questo vino, visceralemente ascritto nel mio privato carnet tra i preferiti da quando mi interesso al liquido odoroso (cit.).
Invoco pertanto non solo l’orleanese San Leonardo di Noblac, rappresentato spesso con le manette in mano per la sua dispensa a liberare chiunque incontrasse imprigionato ingiustamente, ma anche tutti gli altri santi ad affrancarmi dal vincolo della passione per essere il più obiettivo possibile in fase di assaggio.
Nel 1741 i marchesi Guerreri Gonzaga diventano proprietari della Tenuta di San Leonardo, situata a Boghetto d’Avio in Val Lagarina, in provincia di Trento, con Oddone de Gresti il bisnonno del marchese Anselmo figura di spicco poiché introdusse per primo una collezione di vini in cantina.
La tenuta, un tempo monastero, fu fondata qualche anno prima nel 1724; è immersa nella Natura, dotata di un particolare microclima essendo incastonata nella Valle dell’Adige tra le pendici del Monte Baldo e i Monti Lessini che favoriscono lo sviluppo dei 30 ettari di vigneti sui 300 complessivi di bosco, inoltre è un bel posto da visitare e, come si usa spesso dire, i grandi vini si producono in mirabili luoghi.
Ma le prime testimonianze di un’attività vinicola nella tenuta son ben antecedenti. Un documento datato attorno al 900 d.C. attesta che Nokterio natio di Grazzana e vescovo di Verona dal 911 sino alla morte avvenuta nel 928 d.C., concesse in usufrutto alcune delle terre in suo possesso, boschi, prati e vigneti, ubicate nel sito di Sarnis, al vescovo di Trento. Occorrerà attendere il tardo medioevo del xiii secolo grazie ai Frati Crociferi, ordine ospedaliero e mendicante che rimasero nella tenuta sino al 1656, anno in cui fu soppresso da papa Alessandro VII, per vedere l’incremento dello sviluppo moderno della coltura della vite.
Il vino San Leonardo ha la foggia di un taglio bordolese, ed è il frutto di una vendemmia parcellizzata di ogni singolo campo coltivato con i vitigni di Cabernet Sauvignon per il 60%, Carménère il 30% e un soffio di Merlot (il 10%). Queste quote sono da intendersi scomodando Plinio il Vecchio cum grano salis, potendo variare in base all’annata anche di un 10%.
Questo mito dell’enologia italiana nasce ufficialmente nel 1982 grazie al marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, padre di Anselmo, grande appassionato e persona colta del vino con una predilezione per quello di Bordeaux, e laureato in enologia a Losanna nel 1957, il quale veicola ogni guadagno ottenuto per ricostruire la tenuta senza dubbio mal ridotta dopo la devastazione di due guerre mondiali. Mentre il Merlot e il Carménère (sotto mentite spoglie) erano già presenti in loco, nel 1978 introduce il Cabernet Sauvignon allevandolo con il sistema del guyot per l’epoca inusuale in quelle terre.
Il San Leonardo è prodotto solo nelle annate che garantiscono un risultato di qualità all’altezza di un vino d’alto livello, e per tale ragione nei millesimi 1984 – 1989 – 1992 – 1998 – 2002 non è stato realizzato.
Nella sua storia, un anno cruciale è stato il 1985 con l’arrivo di Giacomo Tachis rimasto enologo in azienda fino al passaggio di consegne con Carlo Ferrini nel 2002, con l’annata 2000 prodotta a quattro mani. La prima fu una scelta quasi obbligata giacché a metà degli anni ’80, l’inventore dell’innovativo Tignanello era il solo in Italia a dare del tu ai vini di Bordeaux, traguardo a cui il marchese aspirava. Forte anche dei suoi inizi come agronomo, Ferrini seguita con grande rispetto il lavoro di Tachis, con vini che obbediscono al concetto del marchese, vale a dire di godibilità assoluta, agevolezza di beva e freschezza, setosità, dotati di tannino morbido, equilibrati, armonici, ricchi ma mai opulenti, e sotto lo spirito del motto di Aubert de Villaine co-proprietario per molto tempo del Domaine de la Romanée-Conti che sosteneva che un grande vino deve togliere la sete.
Le fermentazioni, che durano tra i 12 e i 15 giorni in vasche di cemento con rimontaggi giornalieri e délestage, avvengono spontaneamente, senza lieviti aggiunti e controllo di temperatura (del resto non ce n’è neppure bisogno: la cantina aperta gode della forte escursione termica esistente) e l’azienda è in conduzione biologica.
La maturazione del vino avviene in botti, tonneau e barrique (nuove solo per circa il 30% per non coprire troppo il frutto di cui il legno ne è il sarcofago) per due anni e altrettanto tempo minimo di affinamento in bottiglia, giacché il San Leonardo è immesso nel mercato cinque anni dopo la vendemmia.
La sua produzione si è progressivamente rarefatta, passando dalle 95.000 bottiglie prodotte nel 2001 alle 70.000 dell’anno 2020, ultima in commercio, e scenderanno ancora nei prossimi anni per stabilizzarsi attorno ai 55.000 esemplari. Su quest’aspetto la politica di Anselmo diverge da quella di papà Carlo da cui ha ereditato le redini dell’azienda, che aveva l’obiettivo di superare di netto le 100.000 bottiglie prodotte l’anno, preferendo invece produrre di meno ed essere costante nelle uscite annuali, evitando di saltare quelle meno felici, dalle quali si ottengono comunque dei buoni vini seppur non eccellenti. È una circostanza legata ad appartenere alla tipologia di vini che attraverso il tempo e il consenso hanno assunto a mito.
Menzionavamo il Carménère, che per circa un terzo rientra nell’assemblaggio e che il marchese Anselmo definisce il sale del vino San Leonardo con il grado di responsabile delle necessarie note vegetali. Fino al 2010 era indicato come Cabernet Franc, tant’è che così è scritto nell’opuscolo lasciato ai partecipanti della degustazione nel 2000.
L’errore deriva da uno scambio d’identità avvenuto nel Triveneto tra le due guerre mondiali (ci auguriamo che rimarrano anche le uniche) quando arrivò il Carménère confuso per Cabernet Franc per via di una certa somiglianza. Soddisfatto del risultato che questo vitigno dava al suo vino, nel 1989 Carlo Guerrieri Gonzaga decide d’incrementarne la produzione importando dal più noto vivaista francese, Pierre Marie Guillaume fornitore del Domaine Romanée-Conti, nuove barbatelle di Cabernet Franc, nella convinzione che fosse lui il vitigno che cresceva nella sua tenuta. Si accorse però di qualche differenza tra il nuovo arrivato e il già esistente in termini di resa, sulla forma del grappolo (spargolo è quello del Carménère), e delle foglie nonchè sulle dimensioni dell’acino (più piccolo quello del Carménère). Per dirimere il sospetto interpella ovviamente l’enologo Giacomo Tachis e un altro nome illustre dell’enologia italiana, Attilio Scienza, che entrambi in breve faranno chiarezza. A quel punto nasce il problema dei vari disciplinari di produzione che non menzionando il Carménère di fatto lo vietano. Il prestigio nel frattempo assunto sia dal vino che chi lo produce permettono l’azzardo di poterlo scrivere, cosa che avverà per l’appunto solo nel 2010.
Scoperta la reale paternità del vitigno, fu necessario agire in modo da favorirne lo sviluppo, a partire dal sistema di allevamento che passa dal cordone speronato al guyot. Progressivamente al guyot si affianca l’antica pratica della pergola trentina doppia che nelle intenzioni del marchese Anselmo diventerà il solo sistema di allevamento per il Carménère.
La pergola in Trentino è stata introdotta attorno al 1850 perché il filo di ferro era diventato industrializzato. Prima la vite maritata non faceva dei tralci molto lunghi e impiantarla sui pali di legno aveva un costo nell’acquisto del legno, invece la pergola ha quattro o cinque fili in cui si espande splendidamente. In merito agli altri vitigni che compongono il San Leonardo, il sistema non è usato per il Cabernet Sauvignon che come già menzionato sopra è allevato a guyot, mentre il Merlot è coltivato sia a pergola che a cordone speronato.
Che qui il Carménère riesca bene, equilibrato nelle note speziate dovute al poco sole che prendono le uve in vallata, a differenza da quanto accade all’altro celebre vino prodotto con questo vitigno in Cile che talvolta eccede in sensazioni piccanti, lo testimonia anche il vino prodotto in purezza, voluto dal marchese Anselmo e che nasce da uno scherzo effettuato al papà. Sottrae in quell’anno munifico che fu il 2007, un’intera botte di Carménère destinata all’assemblaggio del San Leonardo e la nasconde per cinque anni grazie alla complicità di Luigino Tinelli direttore della cantina. Terminato il periodo di maturazione, decide di imbottigliare 1724 magnum (esattamente come l’anno di nascita della tenuta). Poi inganna il padre, non convinto che da solo il vitigno potesse esprimere un vino di rilievo e restio ad aggiugere un’altra etichetta aziendale, sottoponendoglielo come un acquisto effettuato a Bordeaux, del resto la forma della bottiglia era simile a quelle transalpine. All’ignaro marchese Carlo quel vino “francese” piacque molto sostenendo che assomigliava molto al loro Carménère, e scoperta la celia diede il consenso a seguitare nella produzione.
La degustazione ha previsto le seguenti annate in ordine ddi presentazione 2020 – 2019 – 2016 – 2014 – 2011 e per terminare il 2008 in versione magnum.
2020
Annata calda, con una vendemmia non proprio entusiasmante, che ha espresso un vino più semplice e godibile, che probabilmente non sarà troppo longevo.
L’impronta iniziale è quella di un fruttato rosso contenuto e maturo, in evidenza della ciliegia succosa, e l’apporto di note vegetali tendenti al piccante, del peperone verde, dei fiori essiccati, e un cenno di balsamico. Al palato non è esplosivo, comunque agile, ha freschezza e acidità a dispetto di un’annata calda, coerente nella cifra stilistica della casa, con setosi e felpati tannini, delle spezie morbide, cenni di tabacco dolce, e il ritorno delle note vegetali piccanti. Un vino semplice, in equilibrio, con buona persistenza, e di grande beva, quella che gli anglosassoni definirebbero dangerous drinkable.
2019
Annata facile e completa, che darà vini di grande longevità, dove non è mancato nulla, acqua, sole, ed escursione termica.
Dietro un carattere austero si cela un vino di smisurata intensità espressiva, con note di frutta rossa matura piena e carnosa, confettura di marasca, ma soprattutto il calice ha regalato delle sensazioni speziate, pepate, e vegetali che ci rammentano il peperone crusco e che rappresentano il carattere di un grande Carménère. E ancora troviamo delle erbe aromatiche e una leggera traccia di macchia mediterranea. Al palato si presenta ricco, profondo e fresco, con un tannino più presente rispetto al 2020 ma non aggressivo, semplicemente che ha necessità di polimerizzare nella lunga longevità che il vino dichiara d’avere. Veramente un vino elegante e di grande finezza e persistenza.
2016
Annata facile e molto equilibrata.
Si percepisce della frutta in confettura di mora, mirtillo, e prugna, quest’ultima anche essiccata, ciliegie sotto spirito, poi dei fiori appassiti, delle note speziate e di tabacco biondo, erbe aromatiche e balsamiche, e a concludere un bouquet molto variegato dei toni iodati. Al palato si rivela setoso nei tannini, di grande vigore ed eleganza, con ottima persistenza non affaticante, disegnata dai ritorni di frutta rossa in confettura e da una minore acidità, e con un finale sapido.
2014
Annata molto piovosa.
Olfatto su note terziarie profonde, con foglie di tabacco, cuoio, frutta matura e agrumi rossi, erbe aromatiche e sensazioni balsamiche. Il sorso è snello con ottima beva, morbido e setoso, con il ritorno delle note di tabacco, e con un finale sapido elegante e persistente.
2011
Annata calda, con molta acqua dove è stato possibile irrigare (in Trentino è consentito), ritenuta dal marchese Anselmo la migliore degli ultimi 15/20 anni.
Bouquet memorabile. S’inizia con dei fiori essiccati, tabacco Kentucky, spezie, cardamomo e chiodo di garofano, se di frutta si tratta quella che pensiamo di percepire lo è molto zuccherina, una sinapsi ci suggerisce il lampone candito, profondo e con toni balsamici. E non è finita qui: troviamo una caramella al rabarbaro, delle note ematiche, e il terziario si completa con le note di catrame. Il sorso è ampio e glicerico, colmo di materia (è il vino dei sei che ne ha di più) quindi con un ottimo corpo, armonico ed estremamente equilibrato, con garbata presenza di un tannino polveroso, e di grande persistenza gustativa. In poche parole un vino che dopo quattordici primavere si presenta in una straordinaria forma.
2008 Magnum
Annata asciuttta, con scarse pioggie e un clima secco e grandi escursioni termiche.
Olfatto molto elegante, dove padroni della scena sono le note terziarie, con sia frutta che fiori ed erbe essiccate, immancabile la presenza della foglia di tabacco, di cenere e di cuoio, assieme a note empireumatiche ed eteree di ceralacca, spezie come cardamomo, e note di chinotto. Il sorso è sottile, elegante e fresco, ottima morbidezza, con una lunga persistenza e un finale sapido e di umami. Un grande vino aiutato in parte dalla dimensione della magnum.
Al termine della degustazione dei sei vini abbiamo avuto la possibilità di votarne due. Le mie preferenze sono andate convintamente al 2019 e al 2011. Altro papabile sarebbe stato il 2008, ultimo in degustazione, che tuttavia non ho preso in considerazione poiché il confronto per quel che mi riguarda è possibile solo fra bottiglie con medesima capacità.
Non mi resta che aspettare il prossimo giubileo, e per mia fortuna non dovrò attendere altri cinque lustri (chissà peraltro se ancora sarò sul pianeta e se sì in che stato), vale a dire il 2033 con quello straordinario per il bimillenario della morte e resurrezione di Cristo.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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