Bisogna essere fortunati nel trovare una compagna (o un compagno) che assecondi le nostre passioni, e se poi, oltre ad assecondarle, quelle passioni le condivide anche, allora vuol dire che siete ancora più fortunati.
Appartengo a questa categoria di fortunati visto che alla mia compagna piace il vino ed è sempre curiosa di nuovi assaggi e avida delle storie di vigna e di cantina che ci sono dietro a ogni singola bottiglia, proprio come me. Questa comune attrazione per il liquido odoroso mi ha consentito di proporle di trascorrere il nostro primo anniversario in modo inusuale: gironzolando per i banchi di assaggio di Degustiamo Insieme Roma, evento organizzato presso la Nuova Villa dei Cesari dall’Agenzia Enotria insieme a Proposta Vini con lo scopo di presentare il nuovo catalogo di produttori e in anteprima la nuova linea di prodotti “Vini vulcanici”.
La proposta è stata accettata con entusiasmo e invece di un pomeriggio di relax termale, o di una romantica cena sulla terrazza con vista di qualche ristorante della Capitale, io e la mia compagna ci siamo ritrovati immersi in una suggestiva location a saltellare, idealmente, tra una regione e l’altra del Paese e, materialmente, tra un banchetto e l’altro a caccia di assaggi insoliti, rifuggendo le certezze offerte dai tanti produttori noti e capaci presenti con i loro vini.
L’esordio con le interessanti e acuminate bollicine valdostane a base di Prié Blanc della Cave du Mont Blanc di Morgex mi ha fornito l’occasione di introdurla concettualmente alla viticultura eroica. Come definire la produzione di vini a partire da uve allevate a quasi 1200 metri sul livello del mare, sulle pendici del Monte Bianco, in quelli che sono a tutti gli effetti i vigneti più alti d’Europa? Estremi ed eleganti nelle loro note citrine di mela verde, e scorza di cedro, sovrapposte a sentori floreali e “burrosamente” fragranti di pasticceria francese e toni fumé. Tutti molto buoni ma non sufficientemente insoliti da conquistare entrambi.
E così alla ricerca dell’assaggio che scardinasse un po’ il palato e catturasse la nostra attenzione, dalla Valle d’Aosta siamo precipitati in Cilento nel giro di pochi minuti e ci siamo trovati di fronte al banchetto di Casebianche dove abbiamo fatto la conoscenza di Pasquale Mitrano e dei suoi vini. Conoscevamo già il Fric, un rosato da Aglianico rifermentato in bottiglia di straordinaria bevibilità, e curiosi di provare tutte le altre etichette ci siamo lasciati guidare virtualmente per le vigne di Torchiara dove gli autoctoni Fiano e Aglianico convivono con Trebbiano, Malvasia e Barbera. Tra le ottime bollicine pas dosé de La Matta (Fiano) e la calda e voluttuosa potenza del Cupersito (Aglianico) siamo riusciti a trovare il nostro primo assaggio da batticuore. La scintilla è scoccata con il Pashkà, un rosso frizzante da uve Aglianico e Barbera che vuole recuperare l’antica tradizione dei vini frizzanti da pasto della Campania (e soprattutto della penisola sorrentina) che aveva nell’ormai introvabile Gragnano un interprete magistrale.
Pashkà 2018 – (Aglianico 50%- Barbera 50%) – Un calice rubino intenso con sfumature violacee, denso di ricordi olfattivi inizialmente scuri e terrosi che spaziano dalla visciola alla terra bagnata, passando per note animali e accenni floreali di viola e cenni balsamici di mirto e aghi di pino. La sua vera forza è in bocca, dove si dimostra un campione di bevibilità e un distillato di gioia. Un’acidità croccante guida la beva assieme ad una bollicina e a un tannino che iniziano lievi e crescono di irruenza senza però eccedere e accompagnano un sorso saporito e piacevolmente persistente tra frutti scuri selvatici ed erbe aromatiche.
Dopo aver goduto della scoperta di un erede di spessore, in salsa cilentana, di quel Gragnano buono e genuino a lungo inseguito da Soldati nei viaggi raccontati in Vino al vino, abbiamo continuato il nostro viaggio attraversando l’Appennino e risalendo verso Nord il versante adriatico fermandoci nelle Marche per apprezzare le sfumature del Verdicchio nelle sue due anime: quella montanara di Matelica e quella collinare e quasi marittima dei Castelli di Jesi.
Di alto livello le interpretazioni di La Staffa ma, eccezion fatta per il rifermentato sur lie “Mai sentito” che ha provocato più di qualche piacevole sussulto, nessuno degli ottimi assaggi ha assecondato la nostra bramosa ricerca del secondo calice insolito e folgorante e dunque il cammino verso Nord è proseguito fino in Veneto, e per la precisione a Gambellara, dove ad aspettarci abbiamo trovato Andrea Fiorini Carbognin (al secolo Garganuda) a presentarci i vini di Stefano Menti, prevalentemente a base Garganega.
Tra i vini assaggiati, tutti veramente buoni e meritevoli di menzione come il Roncaie sui lieviti (un’espressione godereccia e irriverente del territorio di Gambellara, non priva di grande profondità gustativa) e l’elegante e acuminato Omomorto (metodo classico da Durella e Garganega), abbiamo trovato il secondo calice folgorante: il Monte del Cuca.
Monte del Cuca 2018 – (Garganega 100%) Le uve con cui è fatto questo vino provengono da un piccolo vigneto di mezzo ettaro situato in collina e da cui il vino prende il nome. Piante allevate in regime di agricoltura biodinamica con circa 40 anni di età con resa di 80 quintali per ettaro. Giallo ambrato carico, dai sentori salini, fruttati e leggermente speziati. Fichi bianchi, mango maturo e fiori d’arancio con il passare del tempo cedono il passo a erbe aromatiche, zenzero e note di pietra focaia. In bocca la ruvidezza del tannino è più che accennata e la sua scontrosità trova come alleati un’acidità vibrante e una grande salinità che esaltano a modo loro le dolcezze degli aromi che invadono il cavo orale. Un vino che cambia incessantemente e ti costringe a rimettere il naso nel bicchiere, a fare un sorso in più per comprenderlo il più possibile.
Il turbinio di assaggi successivi è stato segnato dal Monte del Cuca di Menti e abbiamo faticato non poco a liberarci di un così piacevole ricordo fino all’incontro con un altro figlio di viticultura eroica e della piccola e incantevole Capri: il Bianco di Scala Fenicia.
Capri Bianco Doc 2017 Scala Fenicia – Ne abbiamo assaggiato due annate diverse la 2017 e la 2013. Dei due, il vino più giovane è stato in grado di farci strabuzzare gli occhi per la sua vibrante freschezza e per la capacità di catapultarci per le viuzze di Capri tra profumi di mare, ginestra e buccia di limone. Composto da un assemblaggio di uve Greco, Falanghina e Biancolella, si presenta nel calice con una veste giallo paglierino delicato e luminoso. All’olfatto regala note di buccia e foglie di limone, note citrine di mele verdi e susine gialle, accompagnate da intensi rimandi di fiori di ginestra, salvia e salsedine. Sorso freschissimo e tagliente, l’eccezionale sapidità marina e i gentili ritorni fruttati e floreali ne fanno una bevuta rinfrescante che chiude lasciando un piacevole ricordo di olive in salamoia e limone sfusato.
Ovviamente non paghi delle emozioni provate la caccia ad altri assaggi elettrizzanti è proseguita e dopo aver giocato di sponda tra Ponza e la Toscana siamo finiti in Romagna, a Mercato Saraceno, dove ha sede Tenuta Santa Lucia. Gianluca Diozzi, responsabile commerciale dell’azienda ci ha accolto con due bollicine intriganti, il Santa Lucia (un brut blanc de blanc da uve Famoso che sosta 30 mesi sui lieviti) e il Vensamé Ancestrale (un rosè da sangiovese), prima di farci assaggiare due versioni di Albana di Romagna di grande spessore, un superbo Centesimino del Rubicone (il Centuplo) dai suadenti profumi di rosa canina, cassis e spezie e chiudere con due ottime interpretazioni del Sangiovese (il S-Cétt e il Sassignolo) in grado di restituire lo spirito vero della Romagna giocato sul connubio tra eleganza e rusticità.
Dalla Romagna ci è voluto solo un attimo per balzare in Emilia per farci solleticare il palato dalle acuminate ed elegantissime bollicine dei Lambrusco di Sorbara di Alberto Paltrinieri, ideali per resettare il palato e consentirci la sarabanda conclusiva al tavolo degli assaggi misti.
Tra le svariate etichette non rappresentate direttamente dai produttori presenti al “tavolo misto” non sono di certo mancate le sorprese e nei nostri calici sono finite, in ordine sparso, bollicine francesi provenienti dal Jura e dalla Borgogna, il rustico ma godereccio Groppello di Revò “El Zeremia” di Lorenzo Zadra, la sempre interessante Riserva Nobile da Bombino Bianco di D’Araprì, l’affilato e agrumato Spumante Brut di Asprinio de I Borboni e il “Sèt e Mèz”, intrigante rosato sur lie di Mirco Mariotti, ottenuto da uve Fortana allevate a piede franco sui suoli sabbiosi del Bosco Eliceo. In conclusione è arrivata la folgorazione che ha chiuso in bellezza quest’insolito anniversario, l’incontro con il vino della serata: l’Etna Rosso “Vinupetra” 2016 de I Vigneri.
Etna Rosso Doc “Vinupetra” 2016, I Vigneri – (Nerello Mascalese 80%, Nerello Cappuccio, Alicante e Francisi 20%). Un’espressione dell’Etna profonda e tridimensionale, frutto di vigne centenarie allevate su terrazzamenti all’altitudine di 700 metri, e della magistrale interpretazione di Salvo Foti. È un vino di grande slancio, quasi impetuoso, che porta con sé un’appassionante esplosione di toni vulcanici, eleganti e vellutati. Al naso dominano i sentori fruttati di ciliegie nere e mirtilli, seguiti da note di arancia rossa, alloro, ibisco, terra bagnata e tabacco, sbuffi minerali e sfumature di pietra lavica. Ad un naso ricco e intrigante corrisponde un assaggio disarmante per intensità e classe, dove la materia e l’alcol non contrastano la facilità di beva, garantita da una straordinaria freschezza e da una piacevole vena sapida accompagnata da un tannino fitto e vellutato. Un vino affascinante, dotato di grande dinamismo e dalla persistenza quasi infinita.
Difficile da dimenticare, come può esserlo un insolito anniversario trascorso in un piacevole pomeriggio di ottobre a caccia di assaggi memorabili.
Aggiornamenti continui sul mondo dell'enogastronomia