E in Cantina sbarca Riccardo Cotarella La tentazione dalle parti nostre (e nessuno, o quasi, ne è immune) è sempre forte. Quella, intendo, di abbandonarsi a una delle correnti più impetuose negli ultimi anni e un po’ in tutti i campi (dal vino alla politica e ritorno, dalla tuttologia in rete alla dietrologia pandemica): la corrente cioè che spinge a privilegiare la naiverie, lo spontaneismo – magari travestito da natura o da innocenza – al savoir faire, all’esperienza, ai titoli guadagnati nel tempo e sul campo.
Così quando ti viene annunciato che il più celebre e affermato degli enologi italiani, incidentalmente a capo anche della associazione internazionale che li rappresenta, sta per sbarcare in una delle aziende simbolo della Valle Isarco, la enclave eponima dei bianchi più tesi e “puri” in Alto Adige, la prima sensazione – nessuno dicevo, neanche il sottoscritto, è totalmente immune da certe reazioni condizionate – è un sottile tarlo di dubbio: ma non sarà che adesso che a Cantina Valle Isarco arriva Riccardo Cotarella i vini cresceranno, magari, come è logico anzi quasi certo, in perfezione e cesello, ma perderanno, omologandosi pur se in alto, un po’ di identità di terroir?
Per fortuna, poi, quando si parla di vino – per tutto il resto lascio ai postumi, più che ai posteri, la nemmeno troppo ardua sentenza – a far giustizia di dubbi, idee, ubbie o anche slanci sentimentosi, c’è il bicchiere.
Se si è attenti e laici, è lui a dir la sua. E così l’assaggio dei sei vini d.C. (dopo Cotarella, ovviamente) targati Eisacktaler diventa la dimostrazione lampante di un teorema già noto: di quanto poco lontano cioè (ma quanto fuori strada) possa portare un eventuale pregiudizio. Perché i tre Kerner e i tre Sylvaner presentati ai critici sono, alla fine, quanto di più scandito e definito una gamma giocata su un ambo di vitigni possa rappresentare.
Le differenze di tipologia risultano ancora più nitide. E la precisione con cui i confini gustativi (e in qualche modo di affinità elettiva e destinazione) di ogni bottiglia sono segnati aiuta a capire meglio da dove si è partiti e ogni passaggio fatto. Eccoli, in dettaglio, i vini. Accomunati, come ha ricordato nel prologo al tasting Armin Gratl, direttore della Cantina, dall’essere figli di una zona vitivinicola di nord estremo, la più a nord d’Italia, con quote importanti e vigne (quelle dei conferenti alla cantina di Chiusa) scaglionate tra 500 a 1000 metri. In tutto 135 soci per 150 ettari e 950 mila bottiglie, caparbiamente e parcellarmente suddivise tra le 14 varietà allevate (10 a 4 per le bianche ma con 98% contro 2% per quantità prodotta) con 28 etichette e due linee in circolazione, la Classica e e quella superiore, divisa tra le selezioni Aristos e Sabiona.
Il tutto sotto l’egida di una struttura che nella media del triennio ha fatturato 6 milioni annui reinvestendone per negli ultimi cinque ben 2 in ricerca, affinamento tecnologico, e soprattutto migliorie in vigna,
Questa la strada che ha portato – in evidente crescita di ambizione e voglia di nuovi traguardi – alle ultime scelte: restyling e nuovo logo, e consulenza (la prima in regione per lui) del più flying, forse, dei flying enologist nazionali chiamato ad interfacciare (attenzione: non sostituire) il lavoro di Hannes, l’enologo residente.
Alla ovvia domanda sul perché della decisione. E allora: dai terreni ricchi di porfido a sud, sasso e diorite nella zona centrale e basalto, per lo più, nel nord dell’area vitata (fittezza media da 6 a 7 mila piante, pendenze importanti un po’ ovunque) ecco sfilare un Sylvaner 2020 di linea classica (quello che una volta si sarebbe detto: base) forte di agrume ma condito di renetta al naso, ben definito nei contorni gustativi dall’acidità, con punte sapide evidenti; la chiusa di beva è piacevole, e il minimo accenno di morbidezza sembra derivare più da una fase di assestamento in vetro (imbottigliamento recentissimo al momento del test) che da stimmate intrinseche. Costa poco più di 10 euro e viaggia sui 150 mila esemplari.
Un gradino su, ecco l’Aristos 2019: caratterizzato da profumi che – giustamente – chi li descrive presenta come “a punta” e che non vuol certo abiurare il suo carattere, ma crescere in complessità. Ecco quindi la fermentazione fifty-fifty in acciaio e legno e l’elevazione in botti da 33 ettolitri che, senza marcare, regalano resprto e fondant agli aromi e alla tessitura tattile del vino. Che risulta variegato di spezia, mela, pesca gialla, erba medica (una nota di prato che dà vivacità senza squilibri), mandorla fresca. Tiratura 25 mila pezzi, partenza dai 17 euro circa.
Ultimo giro il Sabiona 2018: un cru, con esposizione decisiva. E con cambio altrettanto deciso di parametri. Qui la frutta è matura, la genziana vena il naso insieme all’esotismo delle spezie. La struttura è piena, generosa, non squilibrata (fermenta tutto in tonneau a cielo aperto) ma palesemente condita di nuance di miele. Costa 30 euro, e se ne producono solo 3000 bottiglie. È un altro Sylvaner, pensato per altre destinazioni di consumo.
Via, quindi, al defilé dei Kerner. Il Classico 2020 supera anche i freni eventuali da fresco imbottigliamento, e al naso regala note piacevoli di nocciolo di pesca, sfumature esotiche, mela goden e incenso. Teso, “tirato” da una piccola nota erbacea, chiude la beva con coerenza. Fa solo acciaio, è prodotto in 180 mila pezzi e costa circa 13 euro.
Più impatto, ma senza cali di tensione, per l’Aristos 2019, che presenta aspetti gustativi diversi (soprattutto per ampiezza) ma sempre dinamici. Buono e convincente, prodotto in 30 mila esemplari, ha prezzo che sfiora i 18 euro.
Infine, il Sabiona 2018, che ribadisce il timbro speciale della location. È decisamente il più importante, dal carattere deciso e dal sorso potente e avvolgente, ben integrato nelle sue componenti. Deciso ma armonioso, risulta davvero impattante. Farà bella strada. E il prezzo (30 euro per 3000 bottiglie prodotte) ne ribadisce le giustificate ambizioni.
Pur giustamente fedele alla “tinta” dominante del suo territorio, la Cantina prepara però anche deviazioni (che attendiamo con curioso interesse) dall’attuale seminato. In prospettiva sono infatti previsti un Pinot Nero di montagna da un cru di 1,5 ettari, un passito e un Metodo Classico, prodotto a partire da uve Chardonnay.
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