Il posto è uno dei più belli che chi scrive abbia mai visto. Perché la sensazione è che non si entri – quante, meravigliose e cariche di fascino e di storia, ne abbiamo pur visitate? – in un’azienda vinicola o agricola tout court. Ma in una sorta di piccolo Stato, un’enclave, un minimondo… Quella che era, insomma (così il sottoscritto lo definiva scherzando) la Rohan del dottor Rossi. La citazione (per chi non ne fosse un fan è tratta dal Signore degli Anelli, Rohan è uno dei Regni protagonisti della saga e attraversati dalla Compagnia di Uomini, Elfi, e soprattutto Hobbit che li percorre, tra mille avventure, con la missione di salvare il mondo dal Male) era ispirata e suffragata da almeno tre fattori: primo, i cavalli, cui qui era dedicato uno spazio, una passione e una competenza immensa e che a Rohan, nel racconto di Tolkien, sono quasi un animale sacro, tanto è l’amore e la destrezza con cui vi vengono allevati; secondo, l’aria di comunità “antica”, ancestrale, famiglie (più di 60 in tutto) che vivono dentro un piccolo ma organizzatissimo universo di cui si sentono e sono effettivamente e totalmente partecipi; terzo, la verticalità della struttura di comando. A Rohan c’era un re: un re di quelli antichi, con tutta l’aura del caso.
Qui, appunto, c’era il dottor Rossi: nome completo, Gian Annibale Rossi di Medelana, conte, famiglia di antichissimo lignaggio, giunta in Italia nientemeno che al seguito di Federico II; uomo di mille pensieri e attività, cavaliere e agonista straordinario (specialità: completo) fino a quando, appunto un drammatico incidente di cavallo non lo costrinse in sedia. Indomito, continuò (battendosi intanto per i diritti e la causa civile dei forse diversamente, ma intensissimamente abili come lui era) a guidare da lì l’addestramento dei suoi campioni a quattro zampe, ad allenarsi nella grande piscina coperta fatta annettere alla casa padronale, a gratificare un’altra delle sue passioni profonde attraverso un premio letterario (da lui inventato, ospitato e organizzato) dedicato al romanzo storico, e a guidare con polso fermissimo – e disarmante sorriso abbinato – una label enoica (più il molto altro che si fa al Terriccio) entrata rapidamente nel mazzo delle top. Scomparso a 78 anni nell’autunno 2019, “Pucci” (gli amici, e solo loro, lo chiamavano così), ha lasciato una tolda di comando non semplice, come si comprenderà, da riempire.
Compito raccolto, con il coraggio e la compostezza del “buon sangue non mente”, dall’unico nipote del conte cavaliere letterato e produttore: Vittorio Piozzo di Rosignano Rossi di Medelana, formazione in ambito finanziario, interessi a sua volta molteplici che, appena – come si dice in questi casi – raccolta la sfida, si è trovato a gestirne una che ha riguardato e sta riguardando l’Italia (pioniera, dopo Cina e aree limitrofe, nel farci i conti) e il mondo: la crisi da Covid.
E il nuovo reggitore del Terriccio, almeno nei confronti di chi, negli anni, ha seguito professionalmente l’attività della casa, partecipando alle varie iniziative e meeting, degustando a intervalli regolari i vini, godendosi gli incontri, in azienda o al Vinitaly, nei grandi ristoranti italiani o nell’enoteca di ragazzi di grande acume, con il tanto tosto quanto affascinante e ironico “dottor Rossi 1” l’ha affrontata con una iniziativa che ha subito assunto il senso di un segnale. Se i piccoli maometti che sono i critici non possono venire alla montagna… ecco la montagna mandare due “samples”, per dirla all’inglese.
Uno, come si conviene, di nuova produzione e rilazio, il Tassinaia 2016. L’altro, per spiegare una volta in più quanto il legame di continuità e del lavoro “in progress” qui sia regola, e quanto siamo capaci i vini di qui di traversare migliorando il tempo, pescato pari pari dal passato. Un 2009, un “ten years before” l’addio di chi lo aveva prodotto e ci ha lasciato.
Classico uvaggio bordolese “semplice” (Cabernet Sauvignon e Merlot, senza altri interventi), figlio di annata sobria, elegante, non affogata da calori eccedenti, fermentato in acciaio con macerazioni di accorta e media entità, legni da 500 mai nuovi per 16 mesi più un anno in vetro prima del rilascio,
il Tassinaia 2016 ha naso preciso e leggermente austero, con note frutta (e lieve ma percepito floreale di contorno) che si liberano senza fretta, per allargarsi poi spavalde dopo l’ossigenazione; la beva è dritta, snella, lineare al primo sorso, appena speziata (nuance che anticipano il futuro) al fondo, con minima balsamicità di rinfresco a precisarne il profilo.
Parla un’altra lingua (quella del Syrah in larga prevalenza, con il Petit Verdot a fare il tocco “fondente” all’insieme) il Castello del Terriccio 2009. Annata bipolare: inverno e primavera severo l’uno, fresca, lenta e bagnata l’altra, ma poi estate decisamente calda, e coda vendemmiale tutto sommato felice hanno compensato la partenza lenta. Qui la spezia invece domina, intensa e leggermente ferrigna, arrotondata dall’evoluzione, variegata da minime nuance più dolci (il vino fa tonneaux in parte anche di primo passaggio per quasi due anni) che non ne interrompono però la spiccata evidenza del carattere legato alla varietà preponderante. In bocca il Castello è multistrato. Attacca, poi avvolge, si ammorbidisce, ma in deglutizione e dopo si riprende tutto lo spazio sensoriale che prometteva al naso, e sciorina tutta la balsamicità che i vini di qui (anche i più importanti) hanno sempre avuto come marker. Davvero un bell’esempio.
E in fondo, un trailer. Perché il Lupicaia – vino top aziendale – manca ancora all’appello… Lo aspettiamo fiduciosi.
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